Letizia di Franco Zecchin, a Palazzo Marliani Cicogna di Busto Arsizio fino al 23 aprile, vuole essere un controcampo fotografico sulla grande autrice palermitana scomparsa un anno fa. Un ritratto più intimo e privato della sua persona, colta non dietro l’obiettivo, ma davanti, come soggetto. Le immagini di Zecchin, che con Letizia Battaglia condivise parte della sua vita professionale e privata, raccontano della sua curiosità, del suo impegno, del suo modo di entrare in relazione con le persone e di interessarsi ai problemi sociali.
Quando e come ha incontrato per la prima volta Letizia Battaglia?
C’incontrammo in occasione del workshop residenziale organizzato dalla Biennale di Venezia, in occasione dell’ultimo spettacolo prodotto dal regista polacco Jerzy Grotowski, nel 1975. Letizia, come me, era interessata alla creazione artistica contemporanea. Ognuno di noi fu selezionato, insieme a una ventina di partecipanti provenienti da diverse parti del mondo, per trascorrere un mese a sperimentare e ricercare il superamento del teatro nella spontaneità della vita, attraverso una disciplina estremamente rigorosa. Uno Special Project grotowskiano realizzato all’interno della villa seicentesca di Mirano, nell’entroterra veneziano.
Una delle regole era che non doveva esserci alcun contatto tra i partecipanti e l’esterno. Una specie di clausura temporanea, imposta allo scopo di offrire una maggiore concentrazione al teatro laboratorio e proteggere la libertà di espressione di ciascuno. Un’altra regola era che non si potevano fare fotografie. Qualcuno riferì all’assemblea serale che aveva visto Letizia fotografare nel parco della villa. Le fu richiesto di consegnare il rullino. Lei si oppose con fermezza e ci fu un momento di tensione.
Trovai il gesto di Letizia ammirevole: rompendo la magia dell’avventura teatrale, la sua ribellione reintroduceva un principio di realtà che rivelava meccanismi nascosti come il fatto che la Biennale aveva negoziato l’esclusività delle immagini con un’agenzia di comunicazione. Decisi, quindi, di uscire clandestinamente dalla recinzione simbolica dello Special Project per comprare un rullino fotografico destinato a Letizia, che lo consegnò al posto del suo. Fu così che iniziò la nostra complicità: il teatro, la fotografia, il “ribellismo”, l’urgenza di giustizia.
La storia della fotografia è ricca di esempi di “coppie fotografiche” (Man Ray e Lee Miller, Gerda Taro e Robert Capa, Edward Weston e Tina Modotti ad esempio) la cui produzione spesso si fuse talmente insieme che, nel tempo, fu difficile districarla per indicarne il vero autore. È stato così anche per voi o i vostri modi di lavorare erano, invece, ben distinti, non creando ambiguità di questo genere?
Effettivamente per alcuni anni siamo stati una coppia anche nella vita, ma abbiamo sempre avuto due modalità diverse e, negli anni in cui lavorammo insieme, complementari nel rapportarci alla realtà. Ciò permetteva di non calpestarci a vicenda. Letizia si immergeva nelle situazioni, riducendo al massimo la distanza fisica con i soggetti che fotografava, provocando e spingendo le persone a reagire. Al contrario, io cercavo la distanza necessaria alla descrizione, diminuendo l’impatto della mia presenza per lasciare spazio all’altro. Lei era chiassosa e intemperante, io silenzioso e discreto. All’inizio non avevamo molti mezzi e poteva accadere che ci passassimo la stessa macchina fotografica, scattando a turno. In seguito, dopo aver sviluppato il negativo, ognuno riconosceva i propri scatti esaminando il provino a contatto. Questa foto è tua, questa è mia: sviluppavamo una capacità di visione che serviva a capire gli errori di ciascuno e a migliorarci.
Per dieci anni abbiamo scelto di diffondere ai giornali le foto migliori di entrambi, senza distinguere chi di noi due fosse l’autore. E così, le nostre foto con la doppia firma furono esposte per esempio al Centre National de la Photo di Parigi e pubblicate sul New York Times Magazine. Il sodalizio professionale funzionò sino al 1985, quando Lanfranco Colombo ci propose di concorrere al premio Smith. Pensammo che fosse preferibile che si presentasse uno solo di noi due e, essendo io più giovane (avevo 32 anni e lei 50), decidemmo che fosse Letizia. Si candidò e vinse insieme a Donna Ferrato. Quell’anno infatti il premio fu dato a due fotografe. Dopo la sua vittoria ci rendemmo conto che avremmo potuto presentare il lavoro a quattro mani, anche che non era più possibile mescolare i nostri sguardi in una narrazione visiva comune: ciascuno di noi doveva ormai estrarre le proprie foto dall’archivio che era stato comune fino ad allora, rivelando e evidenziando il carattere e la peculiarità di ognuno.
Il rapporto di Letizia Battaglia con la macchina fotografica (quando Letizia Battaglia era l’autrice) lo si conosce bene, le sue immagini parlano per lei. Poi c’è una Letizia Battaglia diventata icona pubblica, davanti all’obbiettivo, come soggetto. Le sue immagini in mostra lo dimostrano.
In parte per bisogno di gratificazione, in parte per il piacere della provocazione e del gioco anticonformista che ha sempre esercitato, in parte per una forma di idealismo che doveva imporre alla realtà, Letizia si è prestata con divertimento e soddisfazione alle mitizzazioni della sua figura operate dai media, che sono sempre più alla ricerca di personificazioni apocalittiche dell’eroina antimafia, sconfinando spesso in rappresentazioni schematiche e stereotipate, in un lento processo di idealizzazione del “personaggio Letizia” che non si è mai fermato.
C’è un’immagine di Letizia Battaglia, in mostra a Palazzo Marliani Cicogna, di cui ci vuole raccontare la storia?
Sicuramente dell’esperienza vissuta durante il laboratorio teatrale all’ospedale psichiatrico di Palermo nel 1982. Per alcuni anni coordinammo un laboratorio teatrale con gli ospiti ricoverati nei reparti schizofrenici ed epilettici dell’ospedale psichiatrico di via Pindemonte a Palermo. Donne e uomini resi apatici dagli psicofarmaci e dalle condizioni della degenza, in maggioranza lungodegenti e “malati” cronici, reclusi tra le alte mura dell’istituzione psichiatrica, privi di contatto con il mondo esterno. Mettemmo insieme un nucleo di pazienti che riunivamo settimanalmente per praticare insieme esercizi tesi a sviluppare la concentrazione e la velocità di risposta agli stimoli.
Volevamo creare delle occasioni perché si potessero rendere protagonisti della loro esistenza, affrancandosi dalla condizione di vittime, ricentrando la marginalità subita. Con la collaborazione di una piccola troupe di amici, attori della scuola “Teates”, producemmo due spettacoli teatrali, due film, alcune mostre fotografiche, ospitammo all’interno dell’ospedale concerti e spettacoli di danza, nell’intento di aprire l’ospedale alla città e di integrarlo alla scena artistica culturale urbana. Eravamo entrambi sensibili all’ingenuità indifesa dei ricoverati, alla ricchezza emotiva della loro esperienza.
Gli anni in cui avete lavorato insieme sono stati anche anni di affinamento del vostro pensiero fotografico, in un certo senso siete cresciuti insieme. Cosa è accaduto al vostro modo di fotografare negli anni successivi, dopo la vostra separazione?
Insieme ci siamo formati nella fotografia e attraverso di essa, pur mantenendo ognuno la propria personalità, il proprio sguardo e il proprio approccio alla realtà, non sovrapponibili. Tutto si trasforma, compreso lo strumento che utilizziamo per raccontare il mondo; ciò che permane sempre è la necessità di mantenere una posizione etica, di onestà e rispetto nei confronti delle situazioni e degli altri. Credo che questo sia rimasto nel modo di fotografare di entrambi, anche se espresso diversamente.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Franco Zecchin sono nel sito ufficiale del fotografo francozecchin.com, mentre i dettagli del Festival Fotografico Europeo sono su europhotofestival.com.
Franco Zecchin. Un’altra Letizia
- Palazzo Marliani Cicogna, Piazza Vittorio Emanuele II, 3 – Busto Arsizio (VA)
- dal 19 marzo al 23 aprile 2023
- ingresso gratuito
- europhotofestival.com