Il fotografo svedese Ola Billmont ha documentato la ruralità delle sue terre d’origine e l’on the road americano. Con Detroit, portrait of houses si è concentrato sulle case della città americana, sulla loro facciata, concettualizzando la loro estetica e il loro decadimento. Lo abbiamo intervistato sul suo processo fotografico e su cosa significhi per lui il progetto sulla più grande città dello Stato del Michigan.
Come è iniziato l’interesse per la fotografia?
È iniziato con un genuino interesse per l’attrezzatura, ho sempre avuto varie fotocamere ma non le avevo mai realmente utilizzate e studiate approfonditamente. Solo quando nel 2012 sono stato introdotto alla fotografia di strada mi sono reso conto che riuscivo a malapena a utilizzare la mia macchina fotografica, così mi impegnai più a fondo per conoscere meglio il mezzo e il linguaggio. Inizialmente scattavo con una fotocamera digitale, ma sono passato all’analogico quasi immediatamente. Essendo la Svezia un Paese in cui si ha una stagione estiva molto breve e di conseguenza poca luce diurna, ho ovviato al problema utilizzando, soprattutto i primi tre anni, un flash portatile, che, nel tempo, è diventato parte di me.
Perché la scelta di fotografare esclusivamente in analogico?
La modalità analogica mi ha insegnato a usare una fotocamera in modo più consapevole. A differenza delle fotocamere digitali, dove ci si affida alla tecnologia, le fotocamere analogiche richiedono un approccio più deliberato e ponderato. Quando si utilizzano il medio e grande formato la composizione dell’immagine è il risultato di un processo mentale, con una più accentuata attenzione ai dettagli. L’atto di scattare con la pellicola incoraggia anche a essere pazienti, poiché si deve attendere che la pellicola venga sviluppata e le immagini vengano stampate. Questo ritmo più lento può favorire una connessione più profonda con il processo fotografico e un maggiore apprezzamento per i risultati finali. Di solito faccio una foto per ogni scena o soggetto. La sensazione di tornare da un viaggio e sviluppare la pellicola e rivivere di nuovo le inquadrature è semplicemente incredibile.
La tua fotografia è spesso un profondo sguardo trasversale lungo il Paese in cui viaggi, che sia la Svezia o l’America. Che differenze estetica e di rappresentazione noti tra i due Paesi?
Quello che cerco sono scenari che potrebbero essere definiti, nella mia mente, neutri. Non voglio mai documentare un Paese specifico. La mia attenzione potrebbe cadere su qualsiasi cosa: un edificio, una macchina, un albero, una persona su un albero, qualsiasi cosa. Ma alla fine di una giornata, mentre sono in viaggio, i ritratti sono ciò che mi scalda di più il cuore.
Una città rurale in Svezia è ovviamente molto diversa architettonicamente rispetto alle cittadine americane, ma il ritmo, l’atmosfera e le persone non lo sono. Per farti capire, mentre ero ad una lettura portfolio ad Arles, per la quale avevo mescolato le foto svedesi e statunitensi, chi ha guardato le immagini ha sbagliato la maggior parte delle volte nell’indicare la provenienza.
Nelle tue immagini di documentazione, ogni tanto, balena agli occhi qualche fotografia più concettuale. Come l’estetica concettuale si inserisce nel tuo lavoro?
Non considero il mio lavoro di natura strettamente documentaria. Credo che, una volta scoperta l’unicità della propria “voce fotografica”, essa si manifesti naturalmente nelle immagini, indipendentemente dal soggetto o dai tempi. Per quanto mi riguarda, ho affinato, nel tempo, la mia sensibilità estetica, che serve come base per “concettualizzare” e creare un corpo di lavoro che rappresenta il mio stile distintivo.
A proposito di concettualismo, Detroit, portrait of houses richiama molto lo stile dei coniugi Becher. I loro ritratti industriali ti hanno influenzato?
Sì e no. Diciamo solo che hanno influenzato così tanto la storia della fotografia che ovviamente non si può ignorarli, con la loro estetica monolitica e il loro concetto di tempo ripetuto. Ma non penso siano loro i modelli a cui il mio lavoro fa riferimento. Sono più un fan di Alec Soth o Gerry Johansson. Ho fatto un workshop di otto giorni con Alec nel sud della Francia e questa è stata di gran lunga la migliore formazione ed esperienza educativa che ho avuto in ambito fotografico. Con la serie Detroit, portrait of houses volevo solo dare una mano, portare un po’ di vita a degli edifici che stavano lottando per sopravvivere.
Oltre ad un lavoro concettuale Detroit, portrait of houses vuole essere anche un progetto di critica sociale?
Penso che sia, in un certo senso, solo un progetto sulla pura forza della natura. È quasi come se qualcosa fosse morto e volesse risorgere dalle sue ceneri. Così sono quelle case, così è la città di Detroit. Trovandomi lì, ho sentito questa stessa volontà in tutte le interazioni che ho avuto. Vogliono davvero mostrare al mondo che ce la stanno mettendo tutta per tornare. E spero davvero che Detroit torni in piedi.
Perché hai deciso di focalizzarti sulla città di Detroit?
Tutto è iniziato quando ho ricevuto un incarico di documentazione per una rivista di design svedese. Facendo un semplice tour della città mi sono trovato davanti questo scenario e ho deciso di iniziare il progetto Detroit, portrait of houses in quel preciso momento. Finora ci sono stato tre volte e non ho ancora finito.
A differenza di Bernd e Hilla Becher tu fotografi a colori. Che apporto dà il colore alle tue immagini rispetto al bianco e nero?
Domanda molto difficile. Sai solo nelle tue viscere se una certa serie rende meglio in bianco e nero o a colori. Ora, ad esempio, sto lavorando a un libro su una sottocultura svedese chiamata “raggare”. Per questo progetto sto mescolando colore e bianco e nero, ma in generale i colori sono più rivelatori del presente mente il bianco e nero è più senza tempo.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Ola Billmont sono disponibili sul sito ufficiale del fotografo.