Milano
Dal 4 aprile al 28 giugno 2024
Inaugurerà il 4 aprile, presso la Galleria 29 ARTS IN PROGRESS di Milano, A Kind of Beauty, la personale del fotografo Gabriele Micalizzi, membro del collettivo Cesura. L’esposizione, a cura di Tiziana Castelluzzo, è stata per l’autore l’occasione di rimettere mano al suo archivio e ripensare con cognizione di causa alle sue immagini, alle storie che esse racchiudono e, più generalmente, alla sua pratica fotografica.
Abbiamo raccolto qualche sua conclusione in merito, partendo dalle sue origini come fotografo.
Quando è iniziato il tuo interesse per la fotografia?
Da ragazzo facevo parte di un gruppo di writers. Andavamo in giro a fare i tag e a dipingere treni o pullman. In casa c’era la macchina fotografica di mio padre, che presi per documentare le nostre opere. Ho sempre avuto, infatti, la passione per la documentazione. Nel mentre, stavo frequentando l’ex Isa, l’istituto d’arte di Monza, situato all’interno della villa reale della città. Era una scuola magica dove c’erano laboratori e qualunque cosa servisse alla sperimentazione. Un giorno entrai nella camera oscura della scuola e, varcata la soglia, con la luce rossa accesa, mi sembrò di entrare in un sottomarino. Quando, per la prima volta, vidi una fotografia emergere dagli acidi mi innamorai subito di quella alchimia artistica.
Scegliere il reportage, come modalità di racconto, è stata una scelta consapevole?
Uscito dalla camera oscura mi diressi verso la biblioteca della scuola dove vidi i primi libri dei grandi reporter di guerra. Luoghi esotici ed emozioni fortissime che raccontavano di un mondo lontano, un mondo che non avevo mai visto con i miei occhi. Provengo, infatti, da una famiglia molto umile e, a quel tempo, non ero mai uscito dall’Italia. Decisi subito che quello doveva diventare il mio lavoro. La fotografia è stata per me una rivalsa sociale e il mio contributo personale a far conoscere le storie di chi non ha voce. Inoltre, la fotografia documentaristica si sposa molto bene con il mio carattere, con il mio lato iperattivo e con quello più empatico.
Nelle tue immagini si riscontra un’attenzione particolare alla composizione e all’estetica. Come hai creato il tuo personale linguaggio narrativo?
Provenendo da una scuola artistica ho sempre avuto dei riferimenti pittorici come Caravaggio o Paolo Uccello, e scultorei come Arnaldo Pomodoro, passando poi per l’aerosol art e la stampa serigrafica, seguendo modelli artistici come H. R. Giger.
Ho avuto la fortuna di apprendere la fotografia da un grande maestro come Alex Majoli, il quale mi ha sempre incentivato a esplorare l’autorialità e a non pormi limiti dati dall’industria fotografica.
Fin dagli esordi ho messo in pratica un’estrema multidisciplinarietà facendo video, studiando cinema e, per molti anni, anche praticando il disegno e la sua applicazione più pratica sul corpo delle persone come tatuatore. Però penso che l’influenza maggiore sia stato l’immaginario degli anni Novanta, periodo in cui passavo il tempo per strada, in città, e per vedere un bel film dovevo aspettare che lo trasmettessero sui ‘Bellissimi’ di Rete 4. Per quanto grezzi e ruvidi avevo il tempo di assimilare gli input che provenivano dal mondo esterno e coltivarli, nel mentre crescevo con le icone del cinema iper violento ma molto sperimentale. A questo bagaglio di immagini, incamerate nel mio subconscio, attingo automaticamente quando riprendo qualcosa.
Per la mostra A kind of beauty come sono state scelte le immagini?
Il momento dell’editing per la mostra è stato un piacevole incontro con Tiziana Castelluzzo, amica e curatrice dell’esposizione, la stessa che mi ha introdotto a Luca Casulli ed Eugenio Calini della Galleria 29 ARTS IN PROGRESS. Era da tempo che necessitavo un output per uscire dagli schemi del fotogiornalismo, avevo bisogno di un contesto che mi permettesse di ragionare sull’uso del mezzo fotografico, dando precedenza alla visione più che al documento. È stato faticoso riguardare quasi venti anni di archivio, il viaggio nel mio passato e nel passato storico dell’attualità.
Il confronto con Tiziana ha arricchito la mostra, indicandomi e mostrandomi dettagli delle mie fotografie che io stesso avevo considerato poco. Il filo conduttore di tutta la mostra svela quella parte che mai viene spiegata, di come il fotografo, soggettivamente, sceglie ed inquadra la realtà. Nulla è oggettivo in fotografia. Con questa mostra lo spazio ed il tempo si fermano e scompaiono, i soggetti ci spingono alla riflessione su cosa rappresentino o cosa dovrebbero rappresentare, lasciandoci solo interrogativi e mai risposte.
Nelle immagini in mostra viene alternato il bianco e nero con il colore. Quando prediligi usare l’uno e quando l’altro?
Nel linguaggio fotografico, a volte, si riduce tutto all’unica scelta tra bianco e nero e colore, ma in realtà è la sequenza e l’editing la vera punteggiatura di questa lingua. Pensando a questa esposizione dovevo distorcere il tempo e far dimenticare allo spettatore la cronologia degli eventi, quindi ho usato il bianco e nero come assonanza al ricordo ed al passato e il colore per rafforzare la presenza e la crudezza del surreale.
Nel 2019, in Siria, sei stato gravemente ferito agli occhi da una granata. Questo evento ha influenzato, in qualche modo, il tuo racconto sulla guerra o il tuo modo di fare fotografia?
Non era la prima volta che venivo ferito o che rischiavo la vita. Tutte le cicatrici che mi porto addosso sono ricordi di sensazioni profonde. Quando ti trovi, con la macchina fotografica, davanti alla sofferenza estrema la analizzi e cerchi di coglierla con occhi chirurgici, cerchi di non provare quel dolore, ma lo assorbi lo stesso. Quando, invece, tocca a te ne hai tutta un’altra percezione, provi una vergogna ancestrale e i pensieri corrono nei luoghi più oscuri della mente. Io sono stato ferito agli occhi e mi sono stati bendati senza che potessi rendermene conto. Per giorni ho pensato di aver perso la vista, rifiutavo l’idea che tutto ciò potesse accadere.
Se veramente fossi rimasto cieco non sarei potuto sopravvivere. In passato, infatti, molti guerriglieri mi hanno chiesto perché continuassi a fare questo mestiere e gli ho sempre risposto che questo, per me, oltre a essere un mestiere, è anche la mia missione di vita. Ma al di là del mio ferimento in Siria, c’è un evento che, più di tutti, ha influenzato il mio modo di lavorare e fotografare: la scomparsa di Andy Rocchelli, co-fondatore, insieme a me e ad altri fotografi, del collettivo Cesura. Ciò che ha prodotto in me la sua morte è stata la voglia di portare avanti il lavoro da lui non terminato, dandomi ancora più determinazione. D’altronde il motto di Cesura è sempre stato: ‘Never Give Up’.
Ulteriori informazioni su Gabriele Micalizzi e i suoi lavori sono disponibili sul sito ufficiale dell’autore gabrielemicalizzi.com. Il lavoro dell’autore sarà esposto nella sezione principale di MIA Photo Fair 2024.
Gabriele Micalizzi. A Kind of Beauty
- A cura di Tiziana Castelluzzo
- 29 ARTS IN PROGRESS GALLERY, via San Vittore, 13 – Milano
- dal 4 aprile al 28 giugno 2024
- mar-sab, 11-19
- ingresso gratuito
- www.29artsinprogress.com