In un momento caldo per l’Emilia Romagna, che nei giorni passati ha visto ancora una volta le acque dei suoi fiumi inondare molti paesi, il fotografo Max Cavallari vince il Press Award degli Urban Photo Awards 2024 con il racconto commovente e puntuale dell’alluvione dello scorso anno, Drowned Choice. Le sue immagini coprono la notizia, il momento, ma a ben vedere ne esce la condizione più profonda dell’uomo inerme davanti a una natura fuori controllo. Abbiamo parlato con Max del suo progetto e della sua esperienza di fotografo in questa particolare condizione emergenziale, che mette in ginocchio un’intera regione.
Come hai iniziato ad interessarti alla fotografia?
Ho iniziato ad approcciarmi alla fotografia durante gli anni del liceo come forma di sperimentazione relativa alla comunicazione. È il mio linguaggio privilegiato di espressione. Sembra una barzelletta, ma il mio professore di italiano al liceo disse ai miei genitori che non ero capace ad esprimermi tramite la scrittura. Così trovai un altro modo di comunicare, il mio, approdando alla fotografia.
Drowned Choice racconta l’alluvione che ha colpito la regione nel 2023. Perché ti trovavi lì?
Collaboro con l’ANSA dall’inizio del Covid, sono uno dei riferimenti dell’agenzia riguardo agli accadimenti in Emilia Romagna e sono stato incaricato di raggiungere i paesi alluvionati per raccontare la calamità che li stava devastando.
Al di là del commissionato e la necessità giornalistica di raccontare istantaneamente quello che stava capitando in Emilia Romagna, Drowned Choice è diventato un vero progetto autoriale. Come è avvenuto questo passaggio?
Di questo aspetto, pensandoci a posteriori, non ho una piena consapevolezza. In generale, parto con un concetto iniziale, un’idea di partenza, una prospettiva su come impostare il racconto, ma quando sono sul campo tutto avviene molto istintivamente. Non cerco la perfezione dello scatto. È tutto molto veloce, anche la richiesta di immagini da parte delle redazioni, a cui invio il materiale quasi meccanicamente.
Però le immagini del progetto sembrano seguire una certa ricerca estetica, un senso della composizione, oltre che coprire la notizia del momento…
Sicuramente l’invio delle immagini alle redazioni e la creazione del progetto sono due fasi completamente differenti. Per coprire la notizia giornalisticamente, come dicevo prima, invio le fotografie istantaneamente, mentre per mettere insieme un progetto mi prendo il tempo di riflettere sulle immagini, di farle dialogare al meglio, secondo un lavoro di editing che penso sia il centro di tutto. Avendo più tempo a disposizione riesco a far emergere più chiaramente anche un senso estetico e una cura della composizione di cui al momento della ripresa non avevo avuto piena consapevolezza. Le fotografie scattate per i giornali o le agenzie e quelle del progetto sono le stesse, quello che è diverso è il mio approccio a quelle immagini.
L’utilizzo del drone, invece, che apporto dà al tuo lavoro?
A dire il vero in Emilia Romagna, per quel lavoro, ho utilizzato il drone per la prima volta. Per questo motivo l’ho usato solo in luoghi isolati e senza persone, evitando il rischio di fare male a qualcuno nel caso il drone fosse caduto. Il drone conferisce all’immagine una prospettiva più completa, dettagliata. Inoltre, in quel caso specifico, mi è stato chiesto di usarlo direttamente dai vigili del fuoco, per controllare una zona colpita da una frana, impossibile da raggiungere a piedi o con altri mezzo. È stato utile alla comunità durante l’emergenza.
In questo lavoro si ritrova spesso un altro elemento: la figura di un uomo, ritratto di spalle, che avanza verso la devastazione dell’alluvione. Hai prodotto queste immagini consapevolmente?
Sì, queste immagini vogliono essere delle metafore, dei simboli di critica sociale e politica, dei memorandum circa l’incapacità del nostro Paese di gestire a dovere calamità ed emergenze di questa portata. Basti pensare al terremoto di Amatrice, ad esempio, su cui mi sono soffermato per raccontare la situazione un anno dopo.
C’è un senso anche politico nel tuo lavoro quindi?
Certamente. Io sono assolutamente una persona politica e lo è anche la mia fotografia. Tutto il mio lavoro riverbera la condizione del nostro Paese, spesso denunciando i malfunzionamenti e la mala gestione.
Con situazioni critiche e di emergenza non è stata, quindi, la tua prima esperienza. Pensi esista un’etica dello sguardo in queste situazioni?
Un fotoreporter, secondo me, deve sempre tenere ben presente i concetti di etica e deontologia. Da una parte c’è la necessità di raccontare la situazione, dall’altra c’è la possibilità di farlo in diversi modi. Purtroppo viviamo in un momento storico in cui la fruizione dell’immagine è diventata morbosa, in cui c’è la perenne ricerca della tragicità per aumentare l’attenzione da parte dei fruitori delle immagini.
Le immagini devono colpire e vengono prima della storia in sé. Oltre ai terremoti e alle alluvioni, mi occupo spesso di immigrazione e anche attorno a questo tema la narrazione è connotata dalla stessa dinamica: si punta prima di tutto a suscitare la pietà del lettore con fotografie cariche di pathos e visivamente violente.
E come la tua fotografia reagisce a questa dinamica?
Io sto cercando dei modi alternativi per raccontare le storie. Senza sbattere in primo piano quella tragicità che in questo periodo storico fa vendere di più e fa collezionare più click.
Nella documentazione degli interni delle abitazioni in Emilia Romagna, oltre a fotografare le condizioni delle stanze ti sei soffermato sulle immagini di famiglia esposte in giro per la casa. Qual è stato il tuo approccio?
Sono comunque delle storie che devono essere raccontate, magari senza porre l’attenzione sulla storia privata, ma cercando di abbracciare il suo essere parte di un racconto complessivo, collettivo. Credo sia importante provare a restituirne il senso comune, l’esperienza di fragilità che investe un intero territorio e non una singola persona.
Ma un’immagine mostra chiaramente una bambina…
Prima di fotografare quelle immagini ho chiesto il permesso e le ho volute consapevolmente inserire nel progetto perché, secondo me, restituiscono non tanto la storia privata di quella bambina, che ora è cresciuta e non è nemmeno più quella bambina, ma uno sguardo più ampio sull’azione di devastazione della natura sulle vite umane. A sporcare quei ritratti, sui vetri delle cornici, c’è uno strato di fango che simboleggia la condizione di calamità e di emergenza che ha afflitto e sta affliggendo anche in questi giorni, l’Emilia Romagna.
Sei tornato in questi giorni in Emilia Romagna?
Sì, assolutamente. Sono stato in provincia di Ravenna, nel paese di Traversara, a dare una mano e a documentare quello che stava succedendo. La situazione lì è quasi peggiore dell’anno scorso. In nemmeno mezz’ora si sono visti affondare nell’acqua.
Il progetto Drowned Choice di Max Cavallari è stato selezionato come vincitore dell”Urban Press Award 2024 da una giuria composta da esperti del settore dell’editoria fotografica, tra cui il direttore di FOTO Cult Emanuele Costanzo.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Max Cavallari sono disponibili sul sito www.maxcavallari.it.
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