Sinomocene, progetto sul piano espansionistico e neo-colonialista della Cina nel mondo, è la manifestazione del sintetismo artistico a cui è giunto Davide Monteleone. Dal fotogiornalismo e dalla fotografia documentaria Davide sta percorrendo un’evoluzione creativa che lo porta a congiungere la fotografia, in senso tradizionale, a modalità narrative che la travalicano come la rappresentazione dei dati, le immagini satellitari o il video. Nel tempo Monteleone ha concentrato il suo focus su tematiche sempre più globali, su questioni come la geopolitica e l’economia che non possiedono un volto univoco, la cui invisibilità il fotografo ha cercato di rappresentare sempre più a livello concettuale. Abbiamo intervistato Davide Monteleone per parlare della sua evoluzione artistica.
Come è iniziato il tuo pensiero fotografico?
Nasce dalla pregressa concezione di ‘fotogiornalismo’, che ormai non esiste più, e si è evoluto poi in una fotografia sicuramente dai toni più concettuali, pur rimanendo fortemente legata alla documentazione.
Da Dusha (2005 – 2009) a Sinomocene (2014 – 2021) come è evoluto il tuo concetto di visione e il tuo immaginario?
Esteticamente, anche ora, continuo a portare avanti il pensiero estetico che ho plasmato lavorando su Dusha. Quello che è cambiato sono i contenuti: Dusha è stato uno dei primi lavori sulla Russia, un Paese che in quel momento storico conoscevo poco e l’ho vissuto un po’ come un esercizio estetico; Red Thistle (2007 – 2011) e Spasibo (2012 – 2013) invece sono dei lavori molto più documentativi, in cui il mio intento era quello di raccontare tramite l’immagine fotografica la storia che stava accadendo; da quel momento però ho iniziato ad interessarmi a tematiche che erano sempre meno visibili e quindi più complesse da rappresentare attraverso un concetto tradizionale di fotografia. Tutto questo processo mi ha portato ad ora, alla realizzazione di Sinomocene, dove confluisce un concetto di rappresentazione che include i dati, immagini satellitari, video e una parte anche documentaria.
I tuoi lavori sono tenuti insieme dalla tua passione per la geopolitica. È così?
Sì, geopolitica ed economia sono temi poco rappresentabili, complessi, e richiedono sicuramente più tempo per essere elaborati e compresi.
Nei tuoi primi lavori, come ci raccontavi inizialmente, ti sei concentrato su un’indagine del territorio russo. Perché ti sei focalizzato lì e perché poi il tuo pensiero visivo si è spostato sulla Cina con Sinomocene?
Mi sono focalizzato sulla Russia per una serie di coincidenze della vita: con quel Paese ho instaurato una relazione personale andandoci a vivere per molto tempo. Quella cultura, quel territorio, semplicemente, sono entrati a far parte della mia vita e per quasi vent’anni li ho fotografati. Un territorio e una geografia, quelli russi, che fanno venire a galla tematiche come quella dell’identità, dell’economia, della politica, della guerra, che poi ho raccontato fotograficamente. Non a caso, il passaggio alla rappresentazione del piano economico e politico della Cina che ho voluto raccontare in Sinomocene è partito da un primordiale lavoro sui rapporti e i confini tra la Cina e la Russia.
Raccontavi come la tua vita lavorativa coinvolga, inevitabilmente, anche la tua vita personale. Per indagare il territorio su cui lavori devi viverlo. Con Sinomocene, invece, il focus è a livello globale, il neo-colonialismo cinese si insinua in parti estese del mondo: come sei venuto a patti con il tuo modus operandi per questo lavoro?
È vero che quando lavoravo sulla Russia anche la mia vita privata era stabilmente lì, ma non sono mai stato un fotografo intimista. Certo, cerco di trasmettere il mio sguardo, la mia esperienza, ma sono sicuramente più affine alla Scuola di Düsseldorf piuttosto che all’estetica e al pensiero di Nan Goldin. La Russia che ho fotografato non è stata sicuramente una “Russia partecipata”, ciò che ho raccontata è il risultato di un’osservazione più distante, meno coinvolta. Questo approccio l’ho mantenuto anche per Sinomocene. In entrambi i casi c’è una approfondita ricerca della storia e dei suoi contenuti, che sia il Caucaso o l’economia cinese. Ciò che invece è cambiato, in effetti, sono gli strumenti di indagine: per Sinomocene ho lavorato non solo con la fotografia, ma anche con la raccolta di dati, e con un economista che mi aiutava a leggerli. Questa novità forse ha conferito al mio lavoro uno sguardo un po’ differente.
The April Theses è un lavoro molto complesso dal punto di vista della struttura narrativa. In questo progetto ricorri a diverse modalità di rappresentazione come anche la staged photography. Vuoi raccontarci come nasce la fotografia in cui ti cali nei panni di Lenin?
Nel marzo del 1917 Vladimir Ilych Ulyanov (Lenin) era ancora in esilio in Svizzera, a Zurigo. Il 9 aprile dello stesso anno, con l’appoggio delle autorità tedesche, all’epoca in guerra con la Russia, riuscì a tornare in patria su un treno che attraversò Germania, Svezia e Finlandia per raggiungere la stazione di Finlandia di San Pietroburgo il 17 aprile, dove iniziò il primo passo verso il potere sovietico. A distanza di cento anni ho ricreato e riproposto l’epico viaggio di Lenin, non inventato, sulla base di documenti d’archivio e di libri storici, tra cui ‘To The Finland Station’ di Edmund Wilson e ‘The Sealed Train’ di Michael Pearson. Questa fotografia e l’immagine del trono dell’ultimo zar di Russia fanno parte di The April Theses. Tutti gli scatti di questo progetto si riferiscono a eventi storici accaduti cento anni fa, ma mi sono preso la libertà di intervenire su alcune delle immagini in modo digitale e analogico per meglio rappresentare il fatto storico e la mia personale visione fotografica.
Nella tua biografia ti definisci come “artista visuale”. Pensi che la complessità narrativa di Sinomocene renda questa tua definizione più visibile?
Sicuramente è un momento storico in cui la definizione di “fotografo” mi sta stretta.
Ma ti è sempre stata stretta?
Inizialmente mi definivo “fotogiornalista”, poi quando mi è andato stretto questo termine sono passato a “fotografo”, ora, utilizzando dei medium e delle modalità narrative anche diverse dalla fotografia, penso che “artista visivo” sia più in linea con la ricerca che porto avanti in questo momento. Inoltre, secondo me, ora come ora, la stessa definizione di fotografia andrebbe rivista.
E Sinomocene può essere il lavoro in cui manifesti questo cambio di definizione?
Assolutamente sì.
Stai diventando sempre più sintetico nel modo di esprimere il tuo pensiero artistico, su cosa stai lavorando ora?
Il prossimo progetto ha a che fare ancora con il colonialismo, in grande scala, con la geopolitica, con il tema delle risorse naturali, si intitola Critical Minerals. È un progetto che si focalizza su quei minerali che saranno indispensabili per la transizione energetica del futuro. La ricerca estetica e progettuale è molto simile a quella di Sinomocene, ci sarà forse più video.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Davide Monteleone sono disponibili sul suo sito davidemonteleone.com.