Milano
Dall’8 novembre 2023 al 7 gennaio 2024
Dall’8 novembre 2023 al 7 gennaio 2024, al Memoriale della Shoah di Milano, sarà esposta la mostra Ucraina di Stefano Rosselli. L’esposizione, a cura di Maria Vittoria Baravelli, è tratta dal libro omonimo edito da Feltrinelli con fotografie di Stefano Rosselli e testi di Massimo Recalcati. Ciò che le immagini mostrano è la quotidianità vissuta in un territorio crivellato dalla guerra, come quello ucraino, attraverso rappresentazioni di una parvenza di normalità, che sembrano dimenticare la morte e gli spari. Stefano Rosselli ci racconta cosa vuol dire essere un fotografo di guerra che cerca di dare un volto non solo allo scontro armato, ma alle persone e al loro stato emotivo, soprattutto quando si tratta di ritrarre un sorriso, anche se all’orizzonte si intravedono i fumi della devastazione.
Quante volte sei stato in Ucraina?
Sono stato in Ucraina tre volte per un periodo totale di circa tre mesi. Il primo viaggio l’ho fatto nel marzo 2022, pochi giorni dopo l’inizio del conflitto. Il secondo a fine aprile, dopo venti giorni di pausa in famiglia, e il terzo un anno dopo tra maggio e giugno nel Donbas, per l’inizio della controffensiva.
Nel tempo, secondo te, l’“estetica bellica”, il modo di raccontare la guerra in Ucraina è cambiato?
Non mi sembra che il modo di raccontare la guerra sia cambiato rispetto ai conflitti del passato.
Oggi c’è solo una maggior copertura degli eventi grazie alle nuove tecnologie. Go-pro, droni, cellulari. Però sicuramente quello che si è trasformato è il modo di guardare queste immagini da parte del pubblico. Oggi c’è una sorta di assuefazione al dolore e alla morte. Basta guardare Instagram o YouTube per rendersene conto, siamo raggiunti quotidianamente da immagini di profonda sofferenza e di crudezza senza precedenti. Questa sovraesposizione ha creato nelle persone un distacco emotivo e una rimozione, pericolosa per la presa di coscienza di ciò che realmente sta accadendo intorno a noi. Il fotoreporter questo lo sa e deve farci i conti ogni giorno sapendo anche che spesso il suo lavoro non fa più la differenza nelle news, a causa di tutti gli strumenti video di cui dispone qualsiasi soldato o civile.
Le tue immagini raccontano la quotidianità nei Paesi crivellati dalla guerra, una quotidianità non solo di morte, ma anche di speranza.
So che in una guerra se vuoi veder pubblicate le tue foto, è meglio fotografare la sofferenza e la morte, tutte le agenzie lo chiedono. Ma io quando fotografo cerco di ascoltare il cuore e per questo motivo ho raccontato quello che in Ucraina mi ha colpito di più: gli esseri umani, sia soldati, sia civili, che cercano anche nelle condizioni più disperate di regalarsi attimi di serenità. Questa è la vera forza dell’uomo e non è superficialità, ma al contrario è la forma più alta di coraggio: riuscire a regalarsi un sorriso, una battuta o addirittura fare una partita di pallavolo durante un bombardamento o poco prima di partire per la prima linea. Cosa è, se non il coraggio di sfidare la morte senza paura?
Come dicevamo le tue foto rappresentano anche la speranza umana, nonostante i segni tangibili della guerra. Ci racconti alcune tue immagini significative in tal senso?
Ci sono molte foto a cui sono affezionato e che, secondo me, raccontano bene la speranza umana. Sicuramente una di queste è quella che ho scattato sul fiume Bug. Durante il mio lungo viaggio di ritorno dal Donbas, vicino a Mykolaiv, avevo notato dietro una curva, nascosti dagli alberi, dei ragazzi che si tuffavano da un ponte completamente arrugginito. Sceso dall’auto, gli sono andato incontro e una ragazza di nome Ana ha improvvisato due movimenti da passerella chiedendomi di fotografarla, subito dopo mi ha raccontato che lei e i suoi tre amici, che aveva conosciuto da piccola in orfanotrofio, erano rimasti a Mylkolaiv durante i combattimenti, vivendo per settimane negli scantinati. Sono contento di averle fatto dimenticare per un istante la guerra facendola sentire una vera modella.
Un’altra immagine a cui tengo molto è stata sicuramente quella che ho scattato sul lago di Slov”jans’k vicino a Kramators’k a una mamma che pettinava il figlio dopo aver fatto il bagno. Non sarebbe stato niente di particolare se non fosse stato che non molto lontano c’erano i combattimenti e si sentivano chiaramente i rumori della battaglia, con spari di cannone e mitragliatrici. In questa situazione di guerra vedere una mamma che si preoccupava di sistemare i capelli al figlio come se stesse andando a un appuntamento, mi ha fatto commuovere.
Oltre ai ritratti della gente ti soffermi spesso anche sui luoghi e sulle loro rovine, che compaiono come resti archeologici di una civiltà che li sta abbandonando.
Camminare in questi luoghi devastati dalla guerra è sicuramente un’esperienza difficile da dimenticare. La civiltà ne esce completamente sconfitta dalla furia umana. Purtroppo ci sono molti, troppi, Paesi dove questo è accaduto e sta ancora accadendo. Oltre alla devastazione dei bombardamenti mi hanno colpito anche quei villaggi dove i segni della guerra comparivano apparentemente in modo meno drammatico. In questi luoghi la natura dopo due anni si stava rimpossessando del territorio, minato in tutti i suoi spazi verdi, compresi i campi da gioco dei bambini. Dal punto di vista del racconto questi luoghi posseggono la stessa forza di una figura umana. In questi casi, lavorando per sottrazione, preferisco soffermarmi sui particolari che mi colpiscono di più. Raramente cerco l’inquadratura curata perché credo che sia più importante l’istante che stai fotografando.
Fotografi spesso a colori, non solo per il reportage di guerra. Cosa conferisce il colore al tuo stile?
Uso il colore perché quello che vedo è a colori e quindi sono più attratto da questo linguaggio.
Non ci sono motivi estetici o ideologici. Seguo grandi fotografi che usano entrambi gli stili. Amo anche il bianco e nero e so che per la fotografia di reportage è un’ottima scelta. Prima di stampare le foto della mia ultima mostra ho fatto una prova trasformandole in bianco e nero. Il risultato al computer mi aveva sorpreso e per un attimo stavo per cedere alla tentazione, poi ho cambiato idea perché mi sono sentito in imbarazzo di fronte ai soggetti che avevo fotografato. Era come anteponessi l’estetica al valore della loro vita. Sicuramente in futuro farò dei reportage in bianco e nero ma vorrei farli scattando direttamente così.
Come l’equilibrio della luce e delle ombre si inserisce nella tua narrazione?
Sono sempre preoccupato che i bianchi siano privi di informazioni e quindi lavoro sempre sottoesponendo in acquisizione e aprendo poi l’immagine in post. Questo mi ha portato ad apprezzare le immagini che emergono dalla penombra o che non sono illuminate dalla luce diretta. Le trovo più intense e cinematografiche. Nei ritratti cerco sempre queste situazioni. Se scatto un soggetto in casa, preferisco avvicinarlo a una finestra in modo da sfruttare la luce naturale, altrimenti uso dei led che mi aiutano in un risultato simile. Quando uso la luce artificiale, cerco sempre di simulare la direzione più credibile, o come se provenisse da una finestra o da un lampadario o da una lampada da tavolo. Quando si fa un reportage, non puoi scegliere gli orari e se sei in una zona di guerra, spesso nelle ore migliori è molto pericoloso o impossibile a causa del coprifuoco e quindi ti devi adattare regolando gli ISO o il diaframma.
Ulteriori informazioni sulla mostra sono disponibili nel sito ufficiale memorialeshoah.it.
Stefano Rosselli. Ucraina
- A cura di Maria Vittoria Baravelli
- Memoriale della Shoah di Milano, piazza Edmond Jacob Safra, 1 – Milano
- dall’8 novembre 2023 al 7 gennaio 2024
- ingresso gratuito
- intero 8 euro, ridotto 7 euro
- memorialeshoah.it