Al via il 20 luglio, fino al 27 agosto, l’XI edizione di Ragusa Foto Festival. Claudio Composti, al primo anno come direttore artistico, ci racconta il concept della manifestazione focalizzata sulla rappresentazione delle “Relazioni”.
È il tuo primo anno come direttore artistico di Ragusa Foto Festival. Quali sono gli elementi di continuità e quali di discontinuità rispetto alle precedenti edizioni del festival?
Più o meno la direzione artistica del festival viene cambiata ogni tre anni. Lo scorso anno a curare il festival era Steve Bisson. Il programma differisce di anno in anno, con tematiche e ricerche diverse, quello che invece rimane permanente sono le location, anche se per l’edizione di quest’anno non abbiamo Palazzo La Rocca perché in ristrutturazione. Quindi le mostre saranno concentrate tutte tra Palazzo Cosentini, la chiesa sconsacrata di San Vincenzo Ferreri e l’Antico Convento dei Cappuccini all’interno del Giardino Ibleo.
Il concept di quest’anno è “Relazioni”. Perché questa tematica?
Ovviamente la tematica è stata scelta in virtù degli anni che ci siamo lasciati alle spalle, con la pandemia, la mancanza di contatti sociali e soprattutto la messa in discussione di molte modalità di relazione che prima erano per noi normali. Inoltre con i lavori esposti abbiamo voluto mostrare le relazioni con il territorio, con il corpo, con la malattia, con l’altro. Le diverse interpretazioni del concetto di “Relazione” è per l’appunto il fil rouge dell’intero festival.
Ci racconti alcuni dei progetti che saranno esposti?
Alessandra Calò con Herbarium. I fiori sono rimasti rosa, vincitrice del Premio New Post Photography di MIA Fair, ha lavorato insieme a sei persone disabili per far in modo che ognuno di loro creasse un proprio erbario ideale, un erbario rayografico in cui il concetto di bellezza si allarga fino ad includere l’imperfezione, la fragilità e la marginalità; Francesco Zizola con il video If we were Tuna, un racconto simbolico che vuole rivelare le tradizioni e i rituali del territorio sardo, cioè la pesca del tonno e l’antica modalità della tonnara; Carlotta Vigo con Mare Dentro, invece, in continuità con Francesco, racconta, tramite la rappresentazione del cibo e nello specifico del pesce, il ponte tra il passato, il presente e il futuro della Sicilia.
Andrea Camiolo, vincitore del premio portfolio 2022 del festival, con Per un paesaggio possibile, attraverso cui dà un’interpretazione trasversale e contemporanea al concetto di “paesaggio; Corazonada di Giulia Gatti racconta, invece, le relazioni tra le donne messicane dell’istmo di Tehuantepec, i loro rituali e il loro potere femminile; Sara Grimaldi con Ho visto Nina volare dà voce alla narrazione autobiografica del suo disturbo borderline di personalità e del comportamento alimentare e lo fa con la visione poetica di una bambina su un’altalena che la invita a seguirla; Mari Katayama, con L’armonia imperfetta, estetizza invece la menomazione del suo corpo attraverso l’arte, affrontando la relazione aperta con sé stessa e anche con la fotografia.
Quindi, diciamo, che all’interno del macro tema “Relazioni” avete riservato molto spazio alla specifica lettura delle fragilità umane…
Si, banalmente le prime relazioni che vengono in mente pensando a questa tematica sono proprio quelle umane. Ad esempio c’è anche il lavoro di Federica Belli How far is too close to the heart? in cui la fotografa indaga il rapporto con l’altro, con la persona sconosciuta, a cui chiede il contatto dei loro corpi nudi. Questo progetto racconta di quanto l’empatia riservata all’altro, inteso come diverso da sé e sconosciuto, diventi un mettersi a nudo, e non solo fisicamente ma anche emotivamente. Lisa Sorgini è un’altra artista esposta al festival che segue il filone intimista, con Behind Glass la fotografa australiana si focalizza sul concetto di maternità e sulla relazione madre/figlio, considerando, però, la maternità anche come momento di condivisione femminile, usando la nudità come una sorta di simbolo primigenio di purezza; un altro fotografo che ha lavorato in questa ottica è Ruben Brulat con Porositè, un lavoro a cavallo tra la relazione con il territorio e quella con il corpo, un dialogo serrato tra la potenza del vulcano Etna, dove ambienta le sue immagini, e la sua nudità.
Poi ci sono anche maestri della fotografia documentaristica come Davide Monteleone. Sinomocene è un lavoro che indaga il concetto di “Relazioni” in senso più macroscopico rispetto ai lavori già citati…
Sì, Davide, per la produzione di Sinomocene, è partito dall’analisi di alcuni dati e grafici legati al progetto cinese conosciuto con il nome di “Belt and Road Iniziative”, volto al miglioramento dei collegamenti commerciali tra la Cina e il resto dell’Asia. La sua indagine si è concentrata ad analizzare i movimenti di grossi capitali collegati a strategie di carattere geopolitico nei confronti di economie in via di sviluppo, a livello locale ma anche globale. Dal punto di vista visivo Davide si è indirizzato a documentare, quindi, le nuove forme di colonialismo e le nuove modalità di conquista dei territori da parte della Cina. In effetti con Sinomocene Monteleone tratta la tematica delle “Relazioni” a livello più esteso, mostrandoci i cambiamenti del territorio in base all’antropizzazione e in base ai nuovi assetti geopolitici.
Come hai scelto i fotografi che hai poi invitato ad esporre?
Chiaramente conoscendo loro e il loro lavoro. La possibilità che mi è stata offerta come direttore artistico di un festival è stata quella di realizzare alcune idee che avevo in mente da un po’ di tempo, di portare in mostra degli autori che seguo e stimo.
Portare avanti un festival al giorno d’oggi, con le problematiche che il settore della cultura deve attraversare, è anche un atto politico, un atto di resistenza?
Sicuramente è un segnale di resistenza, a maggior ragione se si hanno pochi mezzi o non li si hanno proprio. Per “mezzi” ovviamente intendo degli sponsor che finanzino il festival. Mi rendo conto che gli sforzi fatti quest’anno per Ragusa Foto Festival sono andati ben oltre il possibile, ma ne è valsa la pena per garantire un certo livello di contenuti. Quindi per tornare alla tua domanda, è sicuramente un atto politico, non ovviamente “di partito” o “di palazzo”, ma sociale.
Come il festival si inserisce nel territorio?
Ibla è un quartiere di Ragusa, situato nella parte orientale della città, su una collina, dove si spostavano i nobili durante il periodo estivo. È un mondo un po’ a sé stante rispetto al centro, anche solo per la posizione in cui è collocata, oltre che per i suoi palazzi antichi e per le sue bellissime chiese. A proposito di chiese, alla chiesa di San Vincenzo è esposto Presidio, il progetto, fatto in collaborazione con Caritas Italia e PERIMETRO, in cui alcuni migranti, accolti e inseriti nel tessuto sociale e lavorativo ragusano, sono stati scelti per raccontare fotograficamente la propria quotidianità. Questo progetto è servito a dare direttamente a loro la voce del racconto e anche a condividere con tutti noi un’estetica di una quotidianità che molto spesso viene rappresentata in maniera convenzionale e non veritiera.
Tutte le informazioni sul Ragusa Foto Festival 2023 sono disponibili nel sito ufficiale dell’evento.