Zsófia Pályi investe le sue immagini di una profonda appartenenza alla sua terra d’origine, l’Ungheria, portandone a galla le gesta del passato, i traumi di guerra e la cultura, con uno stile documentario che include anche delle inserzioni più concettuali ed evocative. Con lei, ci siamo focalizzati su due specifici lavori, Balaton. The Hungarian Sea e Penitents, per comprendere la sua idea di fotografia e capire quali siano gli elementi estetici e narrativi che tornano costantemente nella sua produzione di immagini.
Che cosa è per te la fotografia?
Un hobby e un mezzo di sostentamento, oltre a un sogno d’infanzia. Un’opportunità per visitare luoghi e conoscere persone che altrimenti non avrei avuto la possibilità di incontrare. In una parola, significa conoscere il mondo.
Attraverso due tuoi progetti, apparentemente differenti, Balaton. The Hungarian Sea e Penitents si percepisce la coerenza e l’uniformità del tuo stile. Quali sono i concetti e gli elementi cardine del tuo linguaggio fotografico?
Mi considero una fotografa documentarista e, pur partendo da una forma classica e rigorosa, il cosiddetto ‘documentarismo soggettivo’, mi piace incorporare elementi di staged photography e di fotografia più artistica, mantenendo la realtà della scena e lavorando sempre con persone reali, ma anche prendendo le distanze dal dato contingente, costruendo l’immagine e dando spazio alle coincidenze. Questo approccio è stato presente nella realizzazione di entrambe le serie, per questo motivo, pur nelle loro differenze, rimane sempre una stessa estetica che le congiunge.
Inoltre, ciò che accomuna i due progetti è anche il fatto che tutti e due sono manifestazioni dell’identità ungherese, del nostro patrimonio culturale. Sia Balaton. The Hungarian Sea sia Penitents, sono, infatti, progetti site-specific che non avrebbero potuto essere realizzati in nessun’altra parte del mondo. In entrambi i lavori permane la mia volontà di usarli come strumento di memoria, per non dimenticare i costumi e una cultura che sta scomparendo giorno dopo giorno.
Ci racconti la nascita e l’evoluzione di Balaton. The Hungarian Sea?
È difficile spiegare a voi italiani, abitanti di un Paese le cui città e le cui regioni sono circondate dal mare, cosa rappresenti il lago Balaton per noi ungheresi. Non penso che riusciate nemmeno a immaginare cosa significhi vivere senza mare. Forse è come vivere senza ossigeno? Appunto per questo motivo, credo che gli italiani possano comprendere pienamente il nostro amore sconfinato per il nostro lago, il più grande dell’Europa centrale, proprio come un mare.
L’assenza di sbocchi diretti sul mare non è solo una caratteristica geografica dell’Ungheria, ha anche un significato culturale, storico e identitario molto più profondo.
Il Trattato di Trianon del 1920 – che ha ridisegnato i confini del nostro Paese dopo la Prima Guerra Mondiale, sancendo la perdita di due terzi del suo territorio, compreso l’accesso al Mar Adriatico – è profondamente presente nella memoria collettiva degli ungheresi. Questa perdita, da un lato, fa parte di un trauma nazionale che ha portato con sé una serie di perdite economiche, ma dall’altro ha ridisegnato, in un certo senso, il nostro immaginario, conferendo all’idea di ‘mare’ un valore simbolico di libertà, apertura e un significato sconfinato per tutti. Non è un caso che in Ungheria chiamiamo il lago Balaton ‘Mare Ungherese’.
A prima vista, il paesaggio ricorda una località costiera con il suo orizzonte infinito. Ma in realtà l’acqua è davvero bassa. La profondità media è di circa 3-4 metri. Nella parte meridionale del lago bisogna addirittura camminare parecchio dalla riva per trovare acqua profonda in cui nuotare.
Tutti troviamo, in esso e nel suo immaginario, qualcosa a cui aggrapparci e per questo lo amiamo. Però le spiagge libere circondate da canneti e le piccole case per le vacanze stanno scomparendo anno dopo anno a causa della modernizzazione. I canneti vengono abbattuti e vengono costruiti moderni resort, senza preoccuparsi dell’ecosistema del territorio. Abbattere un canneto non significa solo rimuovere la vegetazione, ma anche la distruzione di intere comunità ecologiche ed esseri viventi, con danni irreversibili.
L’effetto abbacinante della luce in Balaton. The Hungarian Sea è centrale per la resa del progetto. Che valore ha e con che strumentazione hai prodotto questo lavoro?
Da un lato, con questo effetto abbagliante volevo riportare a una sorta di età dell’oro del lago. Un tempo, infatti, era un luogo di culto, negli anni ’60 e ’70, un’importante meta turistica per la classe operaia ungherese, ma attraeva anche il Blocco Orientale, tutti i cittadini provenienti dagli ex paesi comunisti. Serviva, inoltre, come punto di incontro per i tedeschi dell’Est e dell’Ovest, separati dal Muro di Berlino fino al 1990, che potevano ancora viaggiare e riunirsi qui.
Dopo il crollo del comunismo, la regione perse popolarità, acquisendo lentamente un aspetto decadente, frequentato solo dagli ungheresi. Tuttavia, oggi, si percepisce una nuova rinascita, con la ricomparsa dei turisti stranieri, ma il fascino antico e nostalgico dei tempi passati è ancora percepibile.
Per ricondurre visivamente a quell’età dell’oro, come dicevo inizialmente, ho creato una certa estetica grazie alla luce, all’ambientazione calma del lago; inoltre, scelgo sempre di fotografare quando non ci sono nuvole in cielo e il sole è splendente. La superficie dell’acqua, con queste condizioni atmosferiche, funge da vero e proprio pannello riflettente, come in uno studio fotografico professionale. Per realizzare il progetto ho utilizzato una vecchia macchina fotografica Hasselblad C/M, pellicola a colori e un semplice pannello riflettente argentato.
Con che tipo di sguardo hai affrontato Penitents, invece?
Non sono cattolica, ma cristiana protestante, quindi ho affrontato il pellegrinaggio dei penitenti dell’Europa orientale da outsider. Sono rimasta profondamente meravigliata dallo sfarzo visivo che circonda quello che è diventato, a tutti gli effetti, un vero “evento”. Quella che un tempo, infatti, era un’usanza puramente religiosa si è ora trasformata in un vortice colorato, un’esperienza intervallata da fiere e intrattenimento, dove il sacro si mescola al mondo profano. Volevo catturare con le mie immagini la contraddittorietà di questo ambiente in via di estinzione, ricco di tradizioni, ma in costante rinnovamento.
Quanto l’elemento ironico e il colore sono importanti per la resa pop dei tuoi lavori?
La luce e il colore sono elementi molto importanti per il mio modo di lavorare, grazie a essi riesco a far rivivere una certa nostalgia e interesse per il passato, per delle tradizioni e una cultura che stanno scomparendo. A questo scopo mi piace distribuire nei miei progetti anche alcuni elementi appartenenti alla cultura pop, come l’abbigliamento, oppure certi oggetti iconici come il portafoglio di plastica con cui si può nuotare, che era molto popolare in Ungheria durante il comunismo.
Cosa o chi ti ha maggiormente influenzato nel creare un tuo stile?
Ho studiato fotografia all’Università di Arte e Design Moholy-Nagy di Budapest. Questo contesto mi ha permesso di conoscere il lavoro di molti autori e la storia della fotografia.
Innumerevoli fotografi mi hanno influenzato: Henri Cartier-Bresson con la sua naturalezza, Diane Arbus con i suoi soggetti insoliti, o Annie Leibovitz con la sua espressione creativa. Vorrei anche citare un fotografo ungherese scomparso di recente, quest’autunno: Imre Benkő. Cerco di fondere tutte queste influenze nel mio lavoro.
Ulteriori fotografie e informazioni sul lavoro di Zsófia Pályi sono disponibili sul sito della fotografa zsofiapalyi.com.
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