Forlì
Dal 4 maggio al 16 giugno 2024
Prorogata fino al 30 giugno 2024
Silvia Camporesi, nata e cresciuta a Forlì, è un’artista che da tempo rivolge la sua ricerca al paesaggio, a quel concetto di paesaggio che include anche la memoria, la storia geografica del territorio, oltre che quella umana delle popolazioni. Nel caso di Romagna Sfigurata, documentazione empatica e puntuale dell’alluvione che ha messo in ginocchio l’Emilia Romagna lo scorso anno, però, Silvia ha dovuto fare i conti con due incognite fondamentali, rispetto al suo precedente lavoro: il coinvolgimento emotivo, vista l’appartenenza al luogo, e la diversità del paesaggio che si è trovata davanti, un paesaggio che, oltre ad essere ferito, era anche visivamente sconnesso, privato dei suoi punti riferimento e di conseguenza difficile da cogliere.
Esposta a Palazzo del Monte, fino al 16 giugno, Romagna Sfigurata di Silvia Camporesi è il frutto di un progetto promosso dalla Associazione Nuova Civiltà delle Macchine APS di Forlì, sulla base di un’idea sviluppata dalla stessa fotografa insieme con l’architetto paesaggista Sauro Turroni (consulente scientifico e curatore della mostra), sostenuto da Strategia Fotografia 2023 e promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Abbiamo chiesto direttamente a Silvia come sia riuscita a trovare una sua narrazione nel turbinio di una devastazione che coinvolgeva, un territorio, la sua popolazione e lei stessa.
Cosa ha reso diverso Romagna Sfigurata rispetto ai tuoi precedenti lavori di documentazione sul paesaggio?
È stato un lavoro estremamente complesso, perché prima di iniziare non avevo idea di cosa ne sarebbe venuto fuori. Le frane sono difficili da fotografare, non c’è una ‘storia di fotografia delle frane’, non c’è un codice visivo al quale ispirarsi. Sono luoghi ‘senza cornice’, difficili da includere in uno sguardo, per quanto ampio sia. Pertanto mi sono mossa in questo nuovo paesaggio modificato con gli strumenti visivi che avevo, lavorando cioè su porzioni, dettagli, elementi rappresentativi di quanto è stato. Nell’impossibilità di raffigurare il tutto, ho scelto delle parti.
Dal punto di vista paesaggistico e conseguentemente dal punto di vista rappresentativo, come l’alluvione del maggio 2023 ha cambiato l’estetica del territorio?
Ci sono stati due tipi di cambiamento e li ho fotografati entrambi. Il primo è stato un cambiamento immediato, provocato, in modo diretto, dall’alluvione sulla città: nei giorni successivi all’alluvione ho viaggiato per i paesi colpiti, raccontando quel che vedevo, un mondo sommerso da enormi quantità di fango, che faticava a riprendersi.
Poi ho fotografato il lento ripristino e il progressivo ritorno alla normalità. Infine, sono riuscita a cogliere anche un secondo cambiamento, quello relativo alle zone collinari, per opera del dissesto idrologico: parliamo di 81.000 frane, alcune impressionanti, strade scomparse, laghi di nuova formazione, case distrutte. Con quest’ultima parte del lavoro, durata sei mesi, ho documentato un paesaggio totalmente mutato, diverso, tanto che in certi casi non corrisponde più a quello riportato sulle carte geografiche.
Qual è il raccordo tra la prima parte, concentrata sulle conseguenze urbane e sociali, e la seconda, che ha indagato le zone collinari?
La seconda è stata conseguenza della prima, ed entrambe parlano di una ferita. Certamente nella prima parte del lavoro c’era il caos del fango, la gente, il movimento; mentre la documentazione sulle colline sfigurate vive totalmente di paesaggio, a volte si tratta di zone il cui suolo è scomparso, di alberi caduti, inoltre, manca totalmente la figura umana. Entrambe le fasi raccontano di un dramma, di un particolare momento storico del territorio, il cui aspetto, oggi, è già cambiato: acqua e fango sono stati eliminati e la vegetazione sta già crescendo nelle zone franate, così che le spaccature risulteranno, con il tempo, invisibili e saranno reintegrate all’interno del paesaggio.
Perché il concetto di paesaggio ti è sempre interessato così tanto?
Fotografare il paesaggio è un modo per osservare contemporaneamente il tempo e lo spazio. Sono laureata in filosofia, con una tesi in geografia, e credo che il mio percorso di studi mi abbia fortemente influenzato. Infine, credo anche che muoversi nel paesaggio implichi anche una lettura autobiografica: le cose che studio, le ricerche che faccio, i luoghi che visito e le persone che mi accompagnano. È tutto parte di un processo che riguarda la mia identità.
Già per tuoi precedenti progetti hai utilizzato forme di documentazione che non includono solo tue fotografie, ma anche materiale d’archivio e video. Anche in questo caso hai usato il video per raccontare lo stato del paesaggio alluvionato in Romagna. Come questo medium arricchisce la documentazione fotografica?
In questo caso il video è stato girato con un drone, grazie alla collaborazione con i geologi che mi hanno accompagnato. All’interno della mostra è senz’altro uno strumento fondamentale per comprendere l’ampiezza delle frane, per contestualizzarle in un ambiente più esteso. Come dicevo, le frane sono difficilissime da rendere in fotografia, perché non hanno punti di riferimento, non se ne comprendono le dimensioni. Finché non si entra fisicamente in una frana, cosa che ho potuto fare con l’utilizzo del drone, non la si può comprendere e la fotografia in questo senso è fortemente limitata.
Per fotografare una realtà così precaria ed emergenziale immagino tu non debba avere avuto un’attrezzatura troppo pesante. Con cosa fotografi e quanto lavori anche in post produzione?
In realtà per il lavoro sull’alluvione ho usato la solita attrezzatura: una Pentax 645, una macchina pesante, complessa, che ho cercato di sfruttare al massimo in un contesto in cui non era per niente adeguata. Poi sono passata ad una Fujifilm, sempre medioformato, ma sicuramente molto più leggera. Ogni immagine ha un importante lavoro di post produzione. In certi casi correggo solo luci e colori, ma molto più spesso intervengo ad eliminare disturbi, ricostruire parti e modificare in generale la fotografia secondo la mia idea del luogo.
Solitamente le tue immagini hanno una valenza artistica e autoriale molto forte, mentre Romagna Sfigurata è il risultato di un lavoro di equipe, di un dialogo con geologi e altri studiosi del settore. Come ti sei trovata in questo dialogo e in un contesto, forse, di maggiore indagine scientifica?
Mi sono trovata molto bene, perché abbiamo lavorato in sintonia e devo dire che senza il coordinatore del progetto, l’architetto Sauro Turroni, e senza il prezioso aiuto dei geologi, non avrei ottenuto gli stessi risultati. Non sento una discrepanza fra questo e altri lavori, vedo invece una grande continuità, perché in fondo il paesaggio franato è qualcosa di unico ed insolito, di effimero: fra qualche mese gli stessi luoghi saranno ricoperti di vegetazione e tutto sarà diverso. L’insolito, l’effimero, sono argomenti che indago da sempre, come nel mio precedente lavoro Mirabilia. In generale i miei lavori hanno un intento artistico, ma poi diventano portatori, inevitabilmente, anche di una valenza documentale.
Silvia Camporesi. Romagna Sfigurata
- Palazzo del Monte di Pietà, corso Garibaldi, 37 – Forlì
- dal 4 maggio al 30 giugno 2024
- lun-dom, 10-12 e 16-18. Martedì chiuso
- ingresso gratuito
- nuovaciviltadellemacchine.it
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