Gli astrofotografi, di norma, immortalano il cielo stellato dalla Terra. Ma come si fotografa il cielo, o la nostra Terra dallo spazio? Lo abbiamo chiesto all’astronauta italiano Paolo Nespoli, al quale la professione ha regalato il privilegio di accedere a punti di ripresa che non sono certo alla portata di tutti…
La Stazione Spaziale Internazionale è una base orbitale cogestita da cinque agenzie spaziali (ESA per l’Europa, NASA per gli Stati Uniti, RKA per la Russia, JAXA per il Giappone e CSA-AS per il Canada). Paolo Nespoli è un astronauta che ci ha lavorato, adoperando le attrezzature fotografiche Nikon che l’equipe della Stazione utilizza per documentare le fasi delle missioni. Queste hanno per oggetto la ricerca scientifica e i risultati sono costantemente trasmessi sulla Terra. Ma non solo, perché Nespoli ha lavorato anche alla realizzazione di un progetto fotografico concepito in collaborazione con il fotografo americano Roland Miller, eseguito durante la sua ultima missione sulla ISS e poi divenuto un libro edito da Damiani, Interior Space. A Visual Exploration of the International Space Station e una mostra presentata nel 2020 presso la Galleria del Cembalo di Roma. La Stazione Spaziale Internazionale è in orbita da vent’anni, ruota intorno alla Terra a 400km di quota e a una velocità di 27.500km/h. In novanta minuti, quindi, compie il giro completo del pianeta. Ne consegue che, in ventiquattro ore, gli astronauti vedono sedici volte sorgere e tramontare il sole. Sedici occasioni per trovare la combinazione giusta per fotografare il cielo… direttamente dal cielo! Per farlo, però, devono sussistere diverse condizioni favorevoli, incluse quelle atmosferiche terrestri qualora nell’inquadratura venga incluso il nostro pianeta. Ma, soprattutto, si deve trovare il tempo, la variabile più difficile da gestire in un luogo in cui gli astronauti lavorano a un serratissimo programma di esperimenti scientifici.
Nespoli fotografa da quando era ragazzo e, anche nelle sue precedenti missioni ha portato a casa centinaia di immagini mozzafiato che sono pubblicate sul suo profilo Flickr (flickr.com/photos/astro_paolo/). Abbiamo raggiunto telefonicamente l’astronauta italiano per ascoltare dalla sua viva voce come si fotografa il cielo, direttamente dallo spazio.
Nella tua vita è arrivata prima la passione per la fotografia o per lo spazio?
La passione per la fotografia è arrivata molto tempo prima di quella per lo spazio. Ero ragazzo – avrò avuto 13 o 14 anni – quando con un gruppo di amici abbiamo allestito una camera oscura e abbiamo sperimentato di tutto.
Saliamo a bordo della Stazione Spaziale Internazionale: esiste un kit standard di strumentazione fotografica previsto dal protocollo?
Abbiamo sempre un certo numero di fotocamere Nikon certificate per essere portate nello spazio. Di recente stiamo usando le reflex full frame Nikon D3 e D4, oltre a una serie di obiettivi. Sono almeno 15 le fotocamere a disposizione, già preregolate per specifiche situazioni di ripresa, dalla documentazione tecnica, agli ingrandimenti e altro ancora. Il tempo è prezioso e averle già impostate per gli specifici utilizzi è molto utile.
Il compito di documentare fotograficamente le missioni viene assegnato a uno specifico astronauta?
Fare foto non è un’attività principale, anche se siamo addestrati per scattare immagini di tipo documentativo: il fine, normalmente, è inviare informazioni sulla Terra perché con una fotografia si dice molto di può che discutendo per radio.
Space Shuttle e ISS sono i “luoghi” dai quali hai fotografato nello spazio, sin dalla prima esperienza del 2007.
Ho partecipato a tre missioni, anche se la prima, sullo Space Shuttle, è durata solo 15 giorni. In quell’occasione non mi sono potuto sbizzarrire: il programma era molto intenso e raramente si trovava tempo per svolgere attività diverse da quelle richieste da Houston. In verità, in entrambe le navicelle le attività sono cadenzate con molta precisione e sempre monitorate. Inoltre, c’è da considerare che se la missione dura sei mesi, l’astronauta ha più tempo per adattarsi alla microgravità. Per fotografare, sulla Terra come nello spazio, devi avere il modo di elaborare quel che vedi, decidere cosa riprendere. Poi, lo Shuttle aveva finestrature grandi, ma non come quelle della ISS, dove c’è una cupola di vetro dalla quale è più pratico effettuare le riprese verso l’esterno.
Fra la prima e l’ultima missione è cambiato qualcosa nel tuo modo di fotografare?
Sì, perché si interiorizza quel che si vede: non è facile guardare la Terra da quel punto di vista, capire dove si è e dove bisogna dirigere lo sguardo. Serve digerire il cambio di visione e, per farlo, ci vuole tempo. Nell’ultima missione ho anche eseguito diversi time-lapse. Non è stato facile perché è un lavoro che richiede una programmazione precisa: devi prevedere quel che vedrai di lì a pochi minuti, trovare la finestra giusta perché altrimenti rischi di fare foto che non rispecchiano l’area geografica che intendevi riprendere. E poi devi ricordarti di aprire le finestre.
Aprire le finestre della ISS, com’è possibile?
La cupola ha grandi finestre di vetro molto spesso che sono sempre chiuse da una serie di tapparelle, diciamo così, abbassate per evitare l’impatto dei micro meteoriti sul vetro: è un ordine di Houston. Per fotografare dalla cupola, quindi, dovevo aprirle appositamente.
Quali sono gli inconvenienti fotografici che possono capitare nello spazio?
C’è un problema molto serio causato dai raggi cosmici, ossia la perdita di efficienza di alcuni pixel, che è come se si bruciassero. Comprensibilmente, ciò causa vari difetti dell’immagine: finché i pixel interessati sono una minima parte, si riesce a rimediare in postproduzione. Ma quando il fenomeno si espande, non resta che sostituire l’apparecchio. Ciò accade, mediamente, dopo circa un anno di utilizzo nello spazio.
È possibile fotografare anche in passeggiata spaziale?
Le fotocamere si possono portare all’esterno della ISS, ma non è facile maneggiarle con i guanti della tuta. Fuori dalla Stazione, quindi, sono adoperate già settate e solo per documentare questioni tecniche o per fare foto agli astronauti in passeggiata.
Quella fotografica, per la NASA, è un’attività extra rispetto alla ricerca su cui si basa il programma spaziale; quindi fermarsi per scattare una fotografia non documentativa può sembrare tempo sprecato. I russi invece hanno un approccio diverso: in occasione delle Olimpiadi invernali di Sochi, nel 2014, si sono serviti dello spazio per promuovere l’evento, portando la torcia olimpica in passeggiata spaziale. Ciò è significato dedicare tempo e risorse a questioni prettamente di immagine. La NASA la vede diversamente.
A proposito di soggetti, quali sono i suoi preferiti?
Sicuramente la Terra, vederla da quella visuale solo in parte per via della distanza della ISS, è un’occasione unica.
Quali sono le procedure eseguite dopo lo scatto?
Sulla Stazione qualsiasi fotografia viene inviata a Terra. Per le immagini realizzate per il progetto in collaborazione con Roland Miller, è stato siglato con la NASA un accordo specifico di diffusione. Normalmente, invece, le foto diventano di pubblico dominio.
Come si organizza una sessione di scatto nello spazio?
La ISS gira in continuazione intorno alla Terra. Quindi, prima di fotografare, bisogna documentarsi su quando il soggetto che si vuole riprendere sarà disponibile. Non è cosi semplice, a volte non c’è tempo, altre il soggetto è coperto dalle nuvole. Inoltre, la traiettoria che la ISS percorre sedici volte al giorno cambia perché si modifica la posizione della Terra, sotto. Insomma, tutto richiede una preparazione scrupolosa.
Impostare l’esposizione invece è piuttosto semplice perché le regole da seguire sono le stesse adottate sulla Terra: se scatti di giorno e c’è il sole bisogna esporre come se fossimo in una giornata assolata in una qualunque delle nostre città. Stessa cosa per l’esecuzione dei notturni.
C’è un’immagine alla quale sei particolarmente affezionato?
Alla fine della seconda missione, dalla navicella russa Soyuz in partenza dalla Stazione ho realizzato delle fotografie uniche in tutta la storia del volo spaziale. Da quegli scatti si vede la Stazione intera; sono singolari perché, di norma, inquadrature del genere non si riescono a ottenere durante le fasi di decollo.
Bio
Paolo Nespoli nasce nel 1957 a Milano. Nel 1977 presta il servizio di leva nell’Esercito dove rimane per otto anni. Come operatore delle Forze Speciali, nel 1982-1984 fa parte del Contingente Italiano della Forza Multinazionale di Pace in Libano. Al rientro, lascia l’Esercito e s’iscrive alla Polytechnic University di New York dove prende la laurea in Ingegneria Aerospaziale e un master in Aeronautica e Astronautica. Nel 1989 rientra in Italia per lavorare come ingegnere progettista e diventa istruttore dall’Agenzia Spaziale Europea a Colonia, Germania. Nel 1998 è selezionato come astronauta europeo ed è distaccato al Johnson Space Center di Houston, Texas, dove viene inserito nel corpo astronauti della NASA. Vola nello spazio la prima volta nel 2007 a bordo dello Space Shuttle Discovery STS-120, missione destinata alla costruzione della Stazione Spaziale Internazionale. Con la navicella russa Soyuz, nel 2010 e nel 2017, torna sulla ISS per due missioni di lunga durata: Expedition-26/27 ed Expedition-52/53. Nella sua ventennale carriera è stato complessivamente 313 giorni nello spazio. Nel 2019 Paolo Nespoli ha concluso la sua collaborazione con ESA, oggi tiene conferenze in tutto il mondo.