Dagli anni Novanta Lina Pallotta documenta la quotidianità di Porpora Marcasciano, attivista del movimento LGBTQ+ e presidente del Movimento Identità Trans, ma soprattutto l’intimità del loro rapporto d’amicizia. La macchina fotografica di Lina è sempre stata presente e, anzi, come dice Porpora “è parte integrante della nostra interazione affettiva”, una presenza silente che è riuscita a rappresentare, al di fuori di ogni pregiudizio e cliché, l’estetica del mondo trans e omosessuale, semplicemente persone nella loro complessità di vita e sentimenti.
Il progetto Porpora, da cui è stata tratta la mostra Lina Pallotta: volevo vedermi negli occhi, è sicuramente la cronistoria affettuosa e delicata di un’amicizia che nel tempo si è consolidata, ma è anche un manifesto collettivo delle lotte sull’identità di genere ancora in atto in tutto il mondo. L’esposizione sarà visitabile fino al 15 ottobre 2023 al Centro Pecci di Prato. Di seguito la nostra intervista alla fotografa.
Come nasce l’amicizia con Porpora?
Ci siamo conosciute all’Università a Napoli, alla fine del 1976. Da lì l’amicizia è cresciuta e si è solidificata, creando un legame di continuità nel tempo, nonostante poi la distanza e i vari trasferimenti di ognuna delle due.
E quando hai deciso di iniziare a fotografare la sua/vostra quotidianità?
Non c’è un momento in cui ho deciso di iniziare, il processo di annullamento della distanza tra me e il mio soggetto e tra me e la storia che voglio raccontare, nella creazione di un unicum tra la mia vita e il progetto, fa semplicemente parte del mio intendere la fotografia, soprattutto agli inizi. L’idea era quella di fotografare la vita nel suo scorrere, nel suo divenire, non necessariamente secondo una dimensione diaristica. Nel caso di Porpora questa vicinanza era motivata anche dalla nostra profonda amicizia, forse anche per questo Porpora è per me il modello progettuale di riferimento per tutti i lavori che sono seguiti.
Porpora può essere inteso come la matrice del tuo fare fotografico e del tuo pensiero creativo, focalizzato spesso nel dare voce alle vite che si trovano ai margini della società?
Sì, assolutamente. In generale, il mio pensiero fotografico è nato inizialmente dalla consapevolezza che spesso le immagini prodotte nel mondo penalizzavano chi si trovava in una situazione di marginalità e svantaggio – dalle operaie del confine messicano a Porpora – restituendone una rappresentazione stereotipata e mancante di una visione complessiva. La figura di Porpora per me incarna uno spazio, non solo di marginalità, ma soprattutto di resistenza, ricca di dignità e di impegno. Con il tempo ho iniziato ad avere su questo progetto una coscienza molto chiara, arricchendolo anche di un elemento di maggiore ricerca concettuale.
Porpora è quindi, oltre che un tuo lavoro molto intimo e personale sulla vostra amicizia, anche una ricerca sull’estetica anticonvenzionale di quella che oggi è la comunità LGBTQ+…
Negli anni ’90 la rappresentazione del mondo LGBTQ+ difficilmente includeva la complessità della vita e del sentire delle persone che ne facevano parte, l’estetica che lo rappresentava era più legata alla strada e ai club. Per questo motivo il mio modo di raccontare Porpora, le persone e i legami che la circondano, era coscientemente differente e mi rendevo anche conto che con il passare del tempo questo tipo di rappresentazione avrebbe avuto spazio in un discorso più ampio e complesso.
Qual è la prima foto che hai scattato a Porpora, tra le immagini scelte per il progetto?
È del 1990, a Roma, a casa sua. È una foto che va a raccontare il quotidiano come quotidiana è l’azione di scolare la pasta. Come tutto il progetto vuole raccontare il fluire delle cose nella quotidianità di una vita, quella di Porpora, ma anche della mia.
Quanto c’è di Nan Goldin in Porpora? Non tanto per la resa intimista della narrazione quanto più per il valore sociale, politico e culturale di The Ballad of Sexual Dependency, che portava agli occhi del pubblico, indirettamente, la questione dell’AIDS e della morte per AIDS…
È impossibile pensare che io non fossi cosciente della poetica di Nan Goldin, alla fine siamo tutti il prodotto di qualcosa, ma se proprio devo pensare a delle figure che mi hanno influenzata, sicuramente, direi Larry Clark, forse per il bianco e nero, forse per il suo modo di approcciare il momento fotografico, più istintuale e impulsivo, come il mio.
L’estetica di Porpora è connotata da un bianco e nero nebuloso, una grana quasi materica, immagini che non vogliono cristallizzare il momento, ma anzi rappresentarne il movimento…
È un’estetica che non definisce in maniera iconica o precostituita, vuole trasmettere lo scorrere della vita, la dimensione di transizione costante, la complessità e la stratificazione del tempo e soprattutto della vita di Porpora e indirettamente anche della mia.
Nel testo introduttivo del libro Porpora scrive: “Lina è un riflettore dei tempi”. Anche il tuo lavoro su di lei è un riflettore dei tempi?
Non so se la definirei una riflessione dei tempi, ma sicuramente è un riverbero. Il fatto stesso che sia un lavoro che nasce in un tempo molto lontano fa in mondo che nella sua interpretazione venga incluso il tempo passato come traccia di lettura.
Negli anni, ritrai spesso il corpo di Porpora ed è come se su di esso si proiettasse il cambiamento mentale e di pensiero della società riguardante la transessualità e l’identità di genere…
In effetti non è mai stata mia intenzione sollevare questo aspetto, coscientemente, e non lo è nemmeno adesso. Io non vedo questo lavoro come un commentario sul passare del tempo, ma una rappresentazione, con un respiro lento e lungo, su una figura, solitamente stereotipata dalla società, che, invece, nel vivere la sua vita, si manifesta secondo una ricca serie di sfumature e sentimenti, eludendo così una sua rappresentazione monotematica.
Il corpo di Porpora che tu ritrai è un corpo politico?
Sicuramente. La mia intenzione era quella di dare una lettura altra rispetto al corpo rappresentato dai mass media, affrontandolo invece come rappresentazione politica. Alcune persone sono politiche senza parlare e il corpo ne è la rappresentazione. Porpora è così. Il corpo funge da interfaccia con la società e per questo è necessariamente politico: è la prima cosa che le persone vedono, giudicano o accettano.
Porpora si anima di diverse modalità di narrazione: ritratti, documentazioni di interni delle case, delle manifestazioni svoltesi per le vie delle città, di dettagli di vita quotidiana, ma anche di paesaggi cittadini che sembrano interpretare più un sentimento che ambientazioni reali…
Sono tutti paesaggi emblematici di situazioni vissute insieme a Porpora, fotografie scattate mentre ero con lei, che appartengono al nostro vissuto. Forse per questo sono cariche di simbolismo. Inoltre la nostra amicizia è un rapporto che abbiamo coltivato a distanza, io in una città e lei in un’altra. La rappresentazione dei paesaggi che mutano simboleggia anche il nostro girovagare per il mondo, trovando sempre però il tempo e lo spazio per incontrarci in città diverse e in paesaggi diversi. Quei paesaggi sono, inoltre, delle pause che aggiungono comprensione al personaggio di Porpora, al suo essere sfaccettata e mutevole.
La mostra in esposizione al Centro Pecci di Prato si intitola Lina Pallotta: volevo vedermi negli occhi. Sei tu il soggetto di quel “volevo vedermi negli occhi”?
Assolutamente sì. Attraverso le immagini che raccontano Porpora riesco a vedermi negli occhi, sottolineando l’importanza e la profondità del nostro legame. Quello che volevo mettere in evidenza è che in questo progetto non esiste il processo di oggettivazione del soggetto e fotografare Porpora è stato come fotografare parte della mia vita. “Volevo vedermi negli occhi” rappresenta una mia partecipazione alle sue scelte di vita, che sono anche le mie, magari in campi diversi e in modalità diverse, ma il titolo mette in luce propriamente la mia totale adesione alle sue lotte e alla sua vita.
L’allestimento della mostra è molto immersivo, con fotografie a grandezza quasi naturale al centro della sala e più minute, invece, sulle pareti. Un allestimento che segue, forse, quell’immersività che nel tuo lavoro scioglie i confini tra la fotografia e la vita vissuta da te e Porpora, tra la rappresentazione della vita e il suo fluire…
Sì, certo. Il mio intento, con i miei lavori, è quello di portare dentro le mie storie lo spettatore e così abbiamo fatto anche con la progettazione dell’allestimento della mostra, insieme al curatore, Michele Bertolino, e l’architetto, Giuseppe Ricupero. Quello che abbiamo deciso di esporre dentro lo spazio è quello che prima abbiamo definito “corpo politico”. Era necessario esporlo come tale. Inoltre, se il processo di Porpora è anche il mio processo e un processo collettivo, perché la comunità lo sostiene, i corpi esposti, in mezzo alle sale del Centro Pecci, sono appositamente e simbolicamente autosostenenti. Mentre alle pareti ci sono immagini piccole che seguono una narrativa lineare e più in linea con una dimensione temporale, più legati a situazioni contingenti e specifiche.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Lina Pallotta e sulla sua mostra al Centro Pecci di Prato sono disponibili sul sito ufficiale della fotografa e sul sito centropecci.it.