Matteo Parisini usa l’arte dell’immersione affettiva per produrre il suo documentario su Luigi Ghirri, L’infinito. L’universo di Luigi Ghirri. Le interviste si alternano a materiali di repertorio e riproduzioni di fotografie di Ghirri, il tutto orchestrato con un suono che porta lo spettatore ad essere in presenza insieme al fotografo emiliano mentre è intento a camminare o a premere il pulsante della sua macchina fotografica. Ci si ritrova, guardando la carrellata di immagini del documentario, ad avere il cuore esposto, ad essere spettatori inermi davanti alla semplicità delle emozioni che, in alcuni casi, fanno sorridere, in altri, piangere.
In L’infinito. L’universo di Luigi Ghirri il maestro è vivido, è un faro che quasi si può toccare.
All’Auditorium della Fondazione MAST, a Bologna, è in programma, il 13 dicembre alle 18.30, la proiezione del documentario, introdotto da Matteo Parisini, Adele Ghirri e Francesco Zanot.
Abbiamo parlato con Matteo della sua opera che riporta in vita il maestro di molti.
Infinito è il titolo di una serie di Luigi Ghirri, che per un intero anno, tutti i giorni, ritrae il cielo e le nuvole che cambiano forma e composizione; Luigi Ghirri. L’amico infinito è anche il titolo di un libro fotografico di Claude Nori (Postcart, 2019) che racconta un Luigi Ghirri privato ed intimo, visto dagli occhi dell’amico Claude Nori; il titolo del tuo documentario usa nuovamente il termine “infinito. Perché Luigi Ghirri, secondo te, è ricondotto così spesso a questa parola?
Infinito è, infatti, una parola ricorrente nella vita sia professionale che personale di Luigi Ghirri. Dal mio punto di vista, il motivo che mi ha spinto a intitolare il mio documentario Infinito. L’universo di Luigi Ghirri è che penso che la sua ricerca sia tale, soggetta ad infinite chiavi di interpretazione, ed è viva anche oggi, a trent’anni dalla sua morte.
Qual è la tua storia privata con Luigi Ghirri e la sua poetica?
Luigi Ghirri, per me, quando ho iniziato a lavorare con il video e ho avviato la mia carriera di regista, è sempre stato un punto di riferimento, un maestro a cui guardare e continua ad essere con me anche ora, a mostrarmi il suo insegnamento visivo. Dopo diversi anni di lavoro ad osservare la sua ricerca di una vita, ho letto un libro, per me importantissimo, Niente di antico sotto il sole, una raccolta di scritti, riflessioni e articoli di Luigi Ghirri, che trovo essenziale per capire il suo pensiero. Lui amava dire ‘Io sono prima una persona e poi un fotografo’ e da questo libro emerge proprio il suo essere prima uomo e poi fotografo, il suo percorso umano tradotto poi nelle sue immagini. Dalla lettura di Niente di antico sotto il sole è nata, in me, l’esigenza di fare un viaggio con Luigi Ghirri, facendolo, in qualche modo, tornare a vivere. Infatti il documentario è narrato in prima persona.
È commovente, infatti, la rappresentazione palpabile della vicinanza fisica di Luigi Ghirri allo spettatore, attraverso immagini d’archivio che lo rendono così umano, non solo autore di una poetica illuminante e rivoluzionaria…
Tutta la ricerca di Luigi Ghirri parte dal suo percorso umano e privato, fatto soprattutto di tanti affetti e tanti incontri. Non per niente, per il documentario, ho dato molta importanza alle testimonianze dirette di persone amiche o compagni di viaggio o di avventure, come Franco Guerzoni o Arrigo Ghi, il suo storico stampatore, oltre ovviamente a quelle della sua famiglia, come sua sorella o sua figlia Ilaria. Ho voluto ascoltare e intervistare queste persone perché sono coloro che hanno influenzato notevolmente il suo modo di vedere il mondo.
Il suo essere fotografo affondava le basi nel suo essere uomo, ed è quello che volevo trasmettere nel documentario. Rispetto al ‘Ghirri fotografo’ ho fatto, consapevolmente, un passo indietro per rivelare il ‘Ghirri uomo’. Mi fa piacere che hai avvertito questa sensazione, perché vuol dire che sono riuscito nel mio intento. Ed è proprio questo concetto, il suo essere ‘uomo’, la rappresentazione di emozioni così intime e personali, che lo rendono universale, raggiungendo l’inconscio di tutti, a prescindere dall’età e dal periodo storico.
L’audio del tuo documentario è pensato per rendere vive le immagini di Ghirri, per creare un effetto immersivo completo da parte dello spettatore. Come hai congeniato il dialogo tra suono e immagini?
Il lavoro sull’audio è stato fondamentale per rendere “filmico” il mondo di Luigi Ghirri, per farlo tornare in vita, in viaggio insieme a me. L’idea centrale del documentario era riportare integralmente lo sguardo di Ghirri sul mondo e questo lo abbiamo fatto, in parte, con spezzoni di archivio, ma anche riproducendo alcune sue immagini. Per renderle vivide ho collaborato con un sound designer sonorizzandole, per dare l’idea, allo spettatore, di essere lì con lui nel momento in cui le scattava. Inoltre Ghirri ripeteva spesso che è tanto importante quello che vediamo in una fotografia, ma è altrettanto importante quello che rimane fuori da essa, la nostra immaginazione, quello che noi costruiamo con la nostra mente partendo dall’immagine vista. Quindi anche i suoni servono per costruire questo mondo ‘fuori’, esterno al frame fotografico. Ghirri, inoltre, lavorava con il concetto di memoria, ma non tanto quella storica, piuttosto quella personale, quella legata alla fantasia e all’immaginazione. Per questo ho utilizzato l’audio anche per riportare a galla questo concetto, tramite un suono fantastico, quello delle giostre per esempio, che sono ricorrenti nelle immagini di Ghirri.
Nei video d’archivio in cui compare Luigi Ghirri, spesso viene colto mentre passeggia. La ripetizione della scena mi fa pensare che possa rappresentare una metafora di qualcosa. È così?
Il repertorio d’archivio, usato per il mio documentario, è un repertorio girato negli anni Novanta, in occasione della realizzazione di un altro documentario che doveva essere prodotto, ma mai più realizzato perché dopo poco Luigi Ghirri è morto. Così era rimasto inedito, come traccia e appunti di viaggio mai visti da nessuno. Quello che, effettivamente, mi ha colpito di questo girato era per l’appunto che trasmetteva vividamente l’idea di come lui guardasse, concretamente, il mondo, mentre passeggiava, si girava, fischiettava, rideva, spostava il treppiede. Il suo passeggiare, nello specifico, l’ho usato come collante tra la sua dimensione interna e quella esterna, tra la dimensione del suo pensiero, dentro di lui, e il mondo esterno che incontra nel suo cammino. D’altronde questa comunicazione tra pensiero e realizzazione era alla base della sua progettualità e il suo muoversi nello spazio gli serviva come ponte tra queste due dimensioni.
Luigi Ghirri dava molta importanza al montaggio delle immagini. Tu, oltre ad essere regista del documentario, ne sei anche montatore. È un caso?
Assolutamente no. Ghirri, come dicevi tu, dava molto importanza al montaggio delle sue immagini, non tanto alla singola immagine. Una sua singola immagine, infatti, può ritornare anche in più progetti, seguendo sequenze diverse. Io, oltre ad essere regista, sono anche montatore e lavorare al montaggio del documentario è stato, assolutamente, molto stimolante. Non ho proceduto per logica, ma più per istinto, ho lavorato sul concetto di viaggio che io stavo intraprendendo con Luigi Ghirri. Non c’è un ordine temporale, le immagini riprodotte risultano mischiate, e tutto prende senso secondo la lettura personale del mio sguardo, ma sicuramente, in virtù delle infinite interpretazioni del suo lavoro, lo sguardo di lettura cambierà in base a quello dello spettatore.
È possibile prenotare l’ingresso alla proiezione del documentario presso la Fondazione MAST del 13 dicembre al link www.mast.org.

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