Il 28 agosto è mancato, all’età di 93 anni, il grande fotografo italiano Piergiorgio Branzi (Signa, FI, 1928).
Undici anni fa lo intervistai in merito al suo lavoro di fotoreporter e inviato all’estero della Rai.
Ci incontrammo al centro di Roma, in un bar lungo le sponde del Tevere. Il bar era uno di quelli storici, ampi e pieni di luce, scelto da lui. Ci sedemmo in fondo, per stare più riservati e parlare con calma. Il locale non era affollato, ma il frastuono delle tazzine ancora risuona nelle orecchie. La voce di Branzi era pacata e bassa. Registrai le risposte alle mie domande e, nel trascriverle, ascoltai e riascoltai la sua voce, rimanendo piacevolmente sorpresa dal contrasto fra il caos prodotto dal tintinnio delle ceramiche e la delicatezza elegante di quella voce.
Seduto di fronte a me, Branzi raccontò la sua storia, il lavoro in Rai e le difficoltà – tecniche quanto umane – incontrate e superate come inviato a Mosca; gli esordi con il gruppo La Bussola e tutto ciò che giunse dopo, nella sua carriera di fotoreporter.
La sua passione, sempre composta, gli ha permesso di essere coerente eppure mai ripetitivo. Ha raccontato l’Italia e il mondo colti con un lirismo elegante che permeava anche le risposte alla mia intervista per FOTO Cult, in quell’ormai lontana estate del 2011.
Oggi, le sue fotografie realizzate in cinquant’anni di carriera sono raccolte nella monografia Il giro dell’occhio, edita da Contrasto nel 2015.
Crediamo che il modo migliore per ricordare il grande fotografo italiano e diffonderne lo spirito sia pubblicare l’intervista che ci concesse assaporando un buon caffè. Pubblicata originariamente sul numero #79 di FOTO Cult (agosto 2011), ora potete leggerla qui di seguito
Nelle sue immagini, Piergiorgio Branzi, Maestro della fotografia italiana, ricerca l’armonia plasmando la forma in una perfetta composizione sin da quando – nel 1953 da Firenze – comincia il suo viaggio nell’universo della materia umana.
Per tutte le immagini di questo articolo: © Piergiorgio Branzi
Un signore distinto, d’altri tempi. Elegante, “il più europeo tra i fotografi italiani del dopoguerra”, come lo definisce Italo Zannier. Un autore raffinato, attento alla forma e alla materia. Il rigore compositivo tipico della Firenze rinascimentale si mescola nelle sue immagini con il vigore del carpe diem alla maniera di Bresson. Da sempre appassionato d’arte, Piergiorgio Branzi fa propria la cultura dell’immagine in una Firenze postbellica ricca e stimolante. Partecipa alla vita di una famiglia impegnata e numerosa. Sta dentro le cose e dal loro interno le fotografa, indagando minuziosamente ciò che accade ai suoi soggetti, prima e dopo averli fotografati. Con questo orientamento di prossimità al “paesaggio umano”, Branzi sperimenta la fotografia; diventa, negli anni Sessanta, il primo giornalista inviato per la Rai a Mosca e poi a Parigi; sperimenta la pittura e l’incisione, per tornare alla sua amata materia fotografica, avvalendosi di tutti i mezzi possibili, compreso il nuovo linguaggio digitale.
Lo abbiamo incontrato a Roma, dove vive. Di fronte a una granita al caffè ci ha aperto le porte del suo mondo fotografico.
Tutto ha origine da una “folgorazione”. Ce la vuole raccontare?
La folgorazione è avvenuta quando, nel 1953, vidi esposto al Palazzo Strozzi di Firenze, il nucleo rivoluzionario delle opere di Henri Cartier-Bresson, eseguite fra il 1925 e il ‘33. Ma la sorpresa più grande fu quella di scoprire che esisteva un linguaggio fotografico. A Firenze c’erano pochi bravi fotografi, ricordo solo Vincenzo Balocchi, autore che ha segnato il mio stile. Dopo la mostra di Bresson comprai subito la Ferrania Condor, una buona macchina fotografica realizzata dalle officine Galileo di Firenze. Abitavo a Borgo Ognissanti, quartiere parallelo al Lungarno; mio padre aveva una libreria editrice a via del Corso e a turno noi figli andavamo ad aiutarlo; perciò facevo quella strada quattro volte al giorno. Negli anni Cinquanta a Firenze erano attive numerose gallerie. Fra queste, lungo il mio tragitto, ce n’era una molto apprezzata. Un giorno, passando di lì, vidi con sorpresa che c’erano delle mie fotografie esposte. Quella fu la seconda folgorazione.
E come arrivarono le sue foto in quella galleria?
Attraverso un concorso del mensile di fotografia, cinematografia e arti figurative, Ferrania, organizzato dai fotografi attivi già prima della guerra come Monti, Cavalli, Veronesi e Leiss. Una fortuna: era il giorno dell’inaugurazione, entrai e ce li trovai tutti. A Monti piacquero molto i miei scatti, volle vederne altri e ne diede poi un buon giudizio sulla rivista. Quello fu il primo passo.
Qual era il clima culturale che si respirava a Firenze e come l’ha influenzata?
Subito dopo la guerra, Firenze era chiamata “la piccola Atene”: le gallerie d’arte erano molte e di qualità, c’erano tutte le case editrici importanti come Vallecchi, Sansoni, La Nuova Italia e, di conseguenza, scrittori e pittori popolavano la città. Negli anni Cinquanta, purtroppo, le case editrici importanti divennero quelle milanesi e attirarono tutti gli autori. La pittura figurativa italiana della prima metà del secolo scorso viaggiava sotto il segno della metafisica e del surrealismo. Di un’aria così ricca di immagini e cultura, volente o nolente, si rimaneva impregnati.
Territorialmente, com’erano distribuiti i contributi delle principali personalità che stavano cercando di costruire un vero linguaggio della fotografia italiana?
A Firenze si era creato un piccolo gruppo composto da me, il nipote di Balocchi, il futuro fidanzato di mia sorella, e Alfredo Camisa che era fidanzato con l’amica di una mia sorella. Praticamente era una cosa familiare. Poi Balocchi ci fece conoscere quelli de La Bussola, circolo milanese nel quale entrammo io, Camisa e Giacomelli, ma con tono polemico perché Cavalli, che lo dirigeva, era un monsignore, voleva comandare sempre lui. Inoltre era intransigente sul tipo di fotografia da valorizzare, come aveva egli stesso specificato firmando il manifesto del circolo. Certo, siamo stati tutti un po’ influenzati dal “filone Cavalli”, ma sentivamo anche il bisogno di andare oltre. Quindi, i punti di raccolta erano: l’asse Firenze/Senigallia, città quest’ultima, dove nel ’53 era nato il gruppo Misa; poi c’erano i veneti, i milanesi e i bolognesi, ma questi ultimi di livello meno alto.
Chi erano gli attori di questo momento della fotografia italiana?
A Senigallia, in provincia di Ancona, c’era Giacomelli con cui stabilii un rapporto di grande amicizia. Lui si innamorò delle mie foto “nere” e poi, con grande poesia, le personalizzò all’estremo. Ferruccio Ferroni, che era un ufficiale di artiglieria e si vedeva perché nella vita come nella fotografia era una persona estremamente precisa; Alfredo Camisa era un chimico, più tardi assunto all’Eni. Era molto preparato e gli piaceva scrivere di fotografia. A Milano invece c’era un mitico De Biasi che era stato addirittura assunto da Epoca! Questo suo successo ci faceva pensare che tutto fosse possibile. Paolo Monti fu un maestro, per me come per Giacomelli. La sua fotografia era ricca ma leggera, proprio come lo è la città di Venezia; quella toscana, invece, è sempre impastata di materia. Sempre a Venezia, c’era Fulvio Roiter, con il quale ci scontrammo più volte perché secondo me era passato dall’iniziale e proficua ricerca fotografica alla più bassa professionalità di cartoline postali fatta di accese cromie, in cui però non riconoscevo più il Roiter degli inizi.
E poi, Italo Zannier…
Sì, il rapporto con lui è sempre stato buono. Aveva una personale spinta localistica, era molto impegnato socialmente, ma un po’ troppo segnato da una linea teorica, a mio avviso. Io non credo nelle ideologie. Avendone conosciute tante, le ritengo spesso dei freni. Con Zannier siamo rimasti sempre molto vicini, tanto che quando è stato chiamato da Vittorio Sgarbi, che ha curato la 54ma Biennale di Venezia, a segnalare i fotografi da chiamare a esporre, per il Padiglione Lazio ha indicato i miei ultimi lavori. In mostra, due categorie precise: il colore, che fa parte della mia ricerca più recente, e i miei bianconeri realizzati in digitale.
Il fotografo è “come un vampiro in macelleria”. Ci spiega questa sua dichiarazione?
Quando trova un ambiente favorevole, morde e lo fa ripetutamente. Per me fotografare è il passaggio essenziale tra guardare e vedere. Vedendo l’oggetto, questo perde la sua obiettiva connotazione e diventa forma, colore. Tale trasformazione attiva l’interesse nel fotografo. Fare fotografia coscientemente è un’operazione delicata e compromettente perché anche se l’obiettivo è rivolto verso la realtà che ci circonda, l’immagine non proviene dalla macchina, ma dalla parte più intima e nascosta di noi stessi. Infatti, se una foto è buona, racconta il fotografo, lo smaschera. Il rapporto fra l’immagine e il fotografo quindi è imprescindibile. Nel tempo può cambiare il soggetto, ma un fotografo cosciente si riconosce perché racconta se stesso. Appena approfondii la fotografia di Bresson – da cui ho tratto ispirazione e che poi ho tradito, come gli dissi personalmente quando lo incontrai, ormai novantenne, a Firenze – capii chi era l’uomo Bresson.
In che modo avrebbe “tradito” Bresson?
Nell’immediato dopoguerra, a Firenze c’era un ufficio promozionale degli Alleati che accoglieva una biblioteca dove era disponibile materiale propagandistico su un’America immaginifica che cercavano di propinarci. Là trovai un fascicolo di letteratura americana all’interno del quale c’era un inserto che conteneva le immagini dei fotografi americani: Strand, Adams, Ben Shahn, la Bourke-White. Questo fascicolo mi rimase “attaccato” e ancora oggi lo conservo. Quindi, per rispondere alla domanda, ho tradito Bresson con i fotografi americani: dopo aver conosciuto le loro opere, ho amalgamato lo stile bressoniano con la costruzione formale su cui erano strutturate le loro immagini.
Come Che Guevara, anche Branzi ha i suoi “I diari della motocicletta” scritti con la luce durante un viaggio sulla Guzzi rossa. Quale Italia emerse da quell’indagine fotografica?
Ho vissuto in una famiglia cattolica molto ortodossa e assai impegnata politicamente. Quando nacqui, mio padre era già stato allontanato da Firenze per le sue idee. Entrò nella resistenza come rappresentante dei cattolici nel CLN (Comitato di Liberazione Nazionale, ndr) e nel dopoguerra intraprese una carriera politica a livello nazionale come consigliere di De Gasperi. Insomma è stato un personaggio che mi ha segnato molto. Vivendo in questo clima, avevo maturato una forte coscienza di impegno civile che mi spinse a documentare l’Italia degli anni Cinquanta in cui il boom economico aveva subito una grande accelerazione e il Paese rurale stava sparendo velocemente. Convinsi il mio futuro cognato, che aveva una bella Guzzi rossa, e partimmo da Firenze verso l’Abruzzo, la Puglia, la Lucania, la Campania. Anche in quella occasione saldai nelle immagini un certo tipo di cultura bressoniana, sempre sul piano figurativo, con la monumentalità dell’approccio americano che mi riportava ai canoni prospettici della gabbia rinascimentale, ovvero su una strada che avevo nel DNA.
Ci racconta invece di un altro diario, quello moscovita?
A Mosca mi interessava l’umanità che per la prima volta andavo a conoscere. Ero in Russia in qualità di inviato Rai ma, come tutti i cittadini dell’Ovest europeo, ero digiuno d’immagini provenienti da quell’area. Si conoscevano le ideologie del potere sovietico esaltate o combattute per opposti interessi, ma a parte alcune date storiche della rivoluzione russa e poche immagini televisive, non si sapeva molto. Era difficile arrivare a Mosca, per un fotografo. C’era stato Bresson in occasione di una festa, quindi le immagini avevano un’impronta lontana dal vissuto quotidiano moscovita; poi William Klein, che aveva fotografato Mosca dopo New York, con lo stesso criterio applicato per la città americana. Invece io, dopo alcuni mesi di proibizione assoluta di utilizzo della macchina, quando cioè capirono che non facevo la spia, entrai nel vivo della società sovietica e realizzai un reportage per mio uso e consumo. Era una necessità personale, infatti lo esposi solo dopo vent’anni. Negli anni Sessanta esisteva un’acerrima lotta politica contro l’Unione Sovietica e non volevo che il mio progetto fosse sfruttato per scopi diversi da quello per cui era nato.
A Mosca ha lavorato anche come inviato Rai…
A Mosca ero solo e non c’era la possibilità di fare collegamenti video. Avevo il permesso di trasmettere per radio dal telegrafo centrale, cioè dalla censura, nel reparto riservato ai giornalisti. Quindi tutte le sere trasmettevo il sonoro. Per coprire l’audio, avevo messo insieme riprese di varie ambientazioni (la Piazza Rossa, i mercati, il comitato centrale), eseguite nelle diverse stagioni. Erano girate con una videocamera a molla che durava trenta secondi mentre la bobina, solo tre minuti, poi bisognava cambiarla al buio. Ogni tanto riuscivo a mandare questi girati in redazione. Durante la messa in onda del mio sonoro, lo montavano col video più appropriato. Avevo fatto anche una serie di cappelli in cui introducevo il servizio dicendo: “Buonasera, qui Piergiorgio Branzi che vi parla da Mosca”. Poi facevo finta di dire qualcosa, ma a una certa distanza, mai in primissimo piano cosicché dal labiale non si potesse comprendere cosa stessi dicendo. A proposito del labiale, un aneddoto: il mio successore non era molto pratico, in compenso era un appassionato di calcio. Gli insegnai il processo di lavoro ma, girando questi cappelli, fece l’errore di avvicinarsi troppo alla macchina da presa. Accade che in direzione generale Rai arrivò una lettera dell’Ente Nazionale Sordomuti. In questa si domandava il motivo per cui, durante i suoi servizi, il corrispondente da Mosca desse sempre la formazione della Fiorentina…
A proposito del “paesaggio umano”, ci parla dei suoi ritratti ambientati?
Fin quando non partii in motocicletta – viaggio che poi mi aprì la voglia di fare il giornalista – la mia ricerca era orientata a soggetti che coniugassero nell’inquadratura la figura umana e il suo ambiente di appartenenza, perché la città è fatta dagli uomini e gli uomini dalla città in cui vivono. Questo è un rapporto troppo stretto per essere ignorato in fotografia.
Si fotografa meglio ciò che si conosce e si conosce meglio ciò che si riesce a fotografare in modo approfondito?
Esatto, bisogna sentirle le cose. Spesso i giovani partono verso Paesi lontani e vanno a fotografare. Personalmente preferisco fotografare realtà che riesco a capire, ad “ascoltare”. La fotografia diventa un tramite per approfondire. Le foto buone, infatti, vengono dall’interazione e dal coinvolgimento del fotografo con ciò che sta fotografando. Non importa quale sia il soggetto: l’arte è una vicenda che investe i sensi, è come attraversare lo specchio di Alice, entrare in una dimensione diversa.
Rispetto alla fotografia analogica, con il digitale cambia sia la procedura operativa, sia l’approccio all’immagine. Ha trovato una chiave di lettura per questa fase di passaggio?
La pittura del Rinascimento cambiò quando i Fiamminghi portarono l’olio di lino a Firenze dove prima si dipingeva sul gesso o sul muro con le tempere. Quando arrivò la Leica, la fotografia cambiò. Con il digitale è tutto nuovo. Qualcuno contesta la piattezza dell’immagine: e chi l’ha detto che deve esserci per forza profondità, il medico? Non c’è sfondo? Bene, bisogna vedere come si sfrutta una caratteristica del genere. Per esempio falsando in parte o completamente il colore, perché l’alterazione va intesa come omaggio alla realtà. Per me comunque il digitale è uno strumento e, in quanto tale, ha un suo linguaggio che io voglio sperimentare.
Due scatti della produzione digitale di Piergiorgo Branzi: “Natura morta con coltellino” (2008) e “Sardine” (2007).
Quali sono i suoi strumenti di ripresa?
Dopo la Condor, ho usato a lungo la Rollei. Poi sono passato alla Leica, comprata quando uscì la serie M. Acquistai subito anche il 50mm Summicron che uso ancora. Cerco di abituarmi al 35mm, ma senza riuscirci troppo. Attualmente uso anche la Leica digitale perché si ottengono delle immagini degne. Per gli scatti esposti a Roma ho lavorato con la M8, ma vado per la M9. Inoltre, per un recente servizio in bianconero sulle opere di Pistoletto, realizzato su commissione del MAXXI di Roma, ho eseguito anche qualche scatto in digitale a colori con la Leica D-Lux 5, anche questa con l’obiettivo Summicron (con escursione focale equivalente a 24-90mm, ndr). Di questi scatti ho stampato dei 60x60cm con risultati eccezionali.
In che misura mente la fotografia?
Mente ed è bene che lo faccia. Ogni fotografia è un romanzo, è pur sempre un intervento dell’occhio, cosciente o non cosciente, colto o non colto. Quindi il risultato è inesorabilmente truccato. Dopotutto riprodurre la realtà non avrebbe senso. Poi c’è la fase di stampa. Berengo Gardin parla male del digitale, ma quando sei in camera oscura non fai le maschere? Non scegli la carta, la pellicola, lo sviluppo adatto, la luce, i secondi di esposizione?
Piergiorgio Branzi oggi.
In questo periodo seguo due progetti: il primo riguarda Parigi, città in cui mi reco appositamente per fare la cosiddetta “fotografia di marciapiede”; mi piace individuare certi bistrot caratteristici che sono come degli acquari con pesci dentro e fuori, l’attore cioè è anche spettatore, è un doppio acquario. Il più bel paesaggio è la mente dell’uomo, non c’è dubbio. L’altro filone riguarda l’indagine sulla forma significante. Ho letto da qualche parte, e approvo appieno, che l’etica dell’arte sta nel disegno, nella forma, non solo nel tratto, ma in quanto compenetrazione di questa con il contenuto che vuole esprimere. Tale concetto rappresenta una costante della mia ricerca.
Bio
Fiorentino, classe 1928, Piergiorgio Branzi è terzo di sette fratelli. Completa gli studi classici mentre interrompe quelli universitari per dedicarsi alla fotografia e al giornalismo.
Dopo aver visto, a Palazzo Strozzi, nel 1953, una mostra di Henri Cartier-Bresson decide di dedicarsi alla fotografia. Scopre e apprezza le immagini degli autori americani come Weston, Adams, Smith e Shahn. Comincia un’assidua frequentazione con gli attori della fotografia che si dividevano fra Firenze, Milano, Senigallia e Venezia. Entra a far parte del gruppo Misa, diventa molto amico di Giacomelli e Camisa con i quali contesterà l’atteggiamento curiale di Cavalli direttamente dall’interno del gruppo La Bussola al quale si iscrive.
Negli anni Cinquanta, in sella a una motocicletta, fotografa l’Abruzzo, il Molise, la Basilicata, la Calabria, la Campania, e poi il Veneto e la Spagna e la Grecia. Negli anni Sessanta, prima ancora d’intraprendere la carriera giornalistica in Rai, come inviato a Mosca e poi a Parigi, Branzi collabora con alcune testate giornalistiche fra cui anche Il Mondo di Mario Pannunzio. Dopo il 1968, rientra a Roma come commentatore e inviato speciale del telegiornale, sempre in Rai. Realizza inchieste e documentari in Europa, Asia e Africa.
Sue le pubblicazioni: Piergiorgio Branzi (Alinari – Fiaf, 1997), Diario moscovita (Il Ramo d’Oro, 2001). Piergiorgio Branzi (Istituto Superiore per la Storia della Fotografia, 2003).