Negli anni ’70 un gruppo di abili donne commercianti di tessuti wax dominava la compravendita di stampe a cera a Lomé, in Togo: erano chiamate Nana Benz e guadagnavano tanto da potersi permettere di acquistare le costose Mercedes Benz a cui devono la seconda parte del loro soprannome. “Nana” – per chi se lo stesse chiedendo – è un termine togolese che si traduce con “madre”, o “nonna”.
Alla figura di queste leggendarie imprenditrici è dedicato Kɔdi (Codice), il progetto della giovane fotografa Silvia Rosi – nata in Italia nel 1992 da genitori originari del Togo – rientrato tra i cinque lavori finalisti del MAST Photography Grant on Industry and Work 2025.
Nana Benz in bianco e nero. Perché?
L’inizio delle attività delle Nana Benz va ricondotto più o meno al 1940. Allora il Paese di riferimento per il rifornimento di stoffe era il Ghana, ma dagli anni ’70 le Nana Benz iniziarono a rivolgersi ai Paesi Bassi. Acquisirono presto il monopolio della distribuzione di tessuti importati dall’Europa, che lavoravano poi con una tecnica di stampa policroma tutt’oggi diffusa in Africa Occidentale, basata sull’utilizzo di stencil in cera (wax in inglese) durante il processo di tintura.
I tessuti africani così lavorati sono ormai noti in tutto il mondo, apprezzati per l’incredibile varietà di pattern dai colori più disparati. Perché, allora, Silvia Rosi ha optato per una serie di fotografie in bianco e nero, producendo per Kɔdi immagini che sembrano dei negativi? Prima di tutto perché quando una donna di Lomé le ha mostrato alcune fotografie della propria madre – una Nana Benz – e dei suoi abiti, le è capitato di osservarne anche il negativo di grande formato, che ha stimolato la sua creatività.
La seconda ragione, però, è decisamente la più intrigante…
Messaggi segreti nei tessuti wax
Secondo racconti tramandati oralmente in Togo, le Nana Benz avrebbero sostenuto segretamente il movimento per l’indipendenza, nascondendo dei messaggi nelle stoffe che vendevano e che trasportavano in giro per la città. Insospettabili perché donne – e dunque ritenute incapaci di svolgere attività tanto azzardate e sovversive – le imprenditrici riuscirono a risultare invisibili seppur abbigliate con abiti sgargianti.
C’era un altro modo in cui le Nana Benz sfruttavano i tessuti per comunicare senza ricorrere alla parola: i motivi stampati sulle stoffe avevano dei significati ben precisi, legati alla femminilità e al ruolo della donna nella società, ad esempio “La famiglia”, “Mio marito è capace” o “Se tu esci, io esco”, quest’ultimo rappresentativo del ruolo che le Nana Benz svolsero anche nelle lotte per l’emancipazione femminile.
Per concentrarsi proprio sui codici e sui significati nascosti dai tessuti più che sulla loro estetica, la giovane fotografa ha rinunciato al colore e ha optato per l’effetto negativo. Il negativo, secondo Rosi, consiste in una sorta di segreto, qualcosa di nascosto o non ancora esplicitato, come l’attività di spionaggio delle Nana Benz. Per lo stesso motivo l’autrice suggerisce il concetto di camouflage impiegando per lo sfondo le stesse stoffe indossate dai soggetti delle foto (giovani togolesi di Lomé che, lo precisiamo, non sono in alcun modo collegate alle vicende delle Nana Benz).
In bella vista, al contrario, il quadratino nero ricorrente nella maggior parte degli scatti, rappresentativo del supporto sul quale veniva annotato il messaggio, poi piegato e nascosto tra uno strato e l’altro dell’abito.
Lo spazio della Fondazione MAST che espone Kɔdi è quasi completamente buio; le fotografie (immagini digitali trasformate in negativi in fase di postproduzione) sono tutte retroilluminate, a suggerire la modalità di osservazione di un negativo analogico.
Gran parte delle immagini in mostra si riallaccia perfettamente alla tradizione degli studi fotografici dell’Africa occidentale: escludendo temporaneamente la questione “negativo”, infatti, ci si ritrova davanti a ritratti del tutto simili a quelli firmati da Seydou Keïta, Malick Sidibé, o Samuel Fosso, che riprendendo persone in abiti più o meno tradizionali davanti a fondali in stoffa dai disegni geometrici hanno scritto gli anni d’oro della ritrattistica africana in studio.
Nana Benz in città
Una delle quattro pareti dell’esposizione ospita tre scatti dall’ambientazione differente, confezionate al di fuori dello studio. “Si tratta di still di un progetto video che devo ancora portare a termine”, ci ha spiegato Rosi in occasione dell’anteprima stampa della mostra dedicata ai finalisti del Premio biennale organizzato dalla Fondazione MAST. “L’idea è quella di rappresentare le Nana Benz in spazi aperti, cioè gli spazi della città in cui di fatto operavano nelle loro attività di trasmissione clandestina di informazioni. Ad esempio, ci sono delle immagini in cui ho voluto riprodurre il loro tentativo di nascondersi, magari in prossimità di un cespuglio, mentre infilavano i messaggi tra le stoffe degli abiti o negli oggetti impacchettati”.
Le Nana Benz svolgevano le loro mirabolanti imprese “di spionaggio” quando avevano circa vent’anni, la stessa età delle ragazze fotografate da Rosi per il suo progetto. “La tradizione delle stampe wax”, ci ha spiegato l’autrice, “continua ancora, sebbene le stoffe siano ormai prodotte in Cina. Tuttavia, i significati dei loro motivi si stanno perdendo. La maggior parte delle ragazze che ho fotografato non conosce i nomi dei pattern e tantomeno il loro simbolismo”.
Ecco allora che Kɔdi si propone di tenere vivo il ricordo di una storia particolarmente significativa per la cultura togolese, a proposito della quale non esiste alcuna documentazione scritta. Non a caso il progetto si inserisce con coerenza nella produzione di una fotografa da sempre attenta ai temi della memoria e della famiglia. Raccontando una storia legata alla tradizione del Togo il lavoro di Rosi attinge a elementi della sfera familiare della stessa autrice: nei suoi scatti compaiono stoffe appartenenti alla nonna – attiva nel commercio dei tessuti pur senza essere una vera e propria Nana Benz – e l’allestimento dei suoi set in studio presenta delle analogie con le tradizionali fotografie che ritraggono sua madre raccolte negli album di famiglia.
Il lavoro di Silvia Rosi, tra i cinque progetti finalisti del MAST Photography Grant on Industry and Work 2025, è in mostra presso la Fondazione fino al 4 maggio 2025.
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