Non esiste appassionato di fotografia che non si sia lasciato ammaliare dal suo sguardo ironico, sensibile e pungente. Elliott Erwitt, grande maestro della fotografia del Novecento, ha saputo ritrarre l’essenza di tutti gli esseri viventi e raccontarla con delicatezza e simpatia attraverso uno stile schietto e universale che rimarrà nel cuore di generazioni di amanti delle immagini. Lo scorso 29 novembre, all’età di 95 anni, il brillante autore ha lasciato il mondo che per decenni ha scrutato attraverso il mirino della sua fotocamera e noi lo ricordiamo condividendo un’intervista a cura di Loredana De Pace rilasciata a FOTO Cult ben quindici anni fa, intitolata “In 3 words: Elliott (Romano) Erwitt”.
Se Elliott Erwitt dovesse scegliere tre parole per descrivere sé stesso?
Mmh… perché così tante parole? È una domanda profonda, ci devo pensare.
Può prendersi tutto il tempo che vuole.
Ok, allora torni l’anno prossimo…
Non è stato necessario aspettare così tanto, ma l’attesa c’è stata e non senza risultati. Al momento dei saluti, quando pensavamo che l’intervista fosse finita e mentre ne gustavamo ancora suoni e silenzi, abbiamo ceduto alla tentazione di un autografo importante. Come spesso accade, avevamo appuntato le domande dell’intervista su un foglio di carta, e questo ha fatto velocemente le veci del libro come supporto alla firma. Così, senza dire nulla, su quel pezzetto di carta, Erwitt ci ha regalato la (vera) risposta alla nostra prima domanda: In 3 words: Elliott (Romano) Erwitt, ossia il suo nome americano inframezzato da quello italiano d’origine. Due (o più) mondi in un solo uomo.
Come in un buon film, dove l’epilogo introduce la storia senza svelarne il finale e poi riprende dal principio, torniamo indietro. E cominciamo ad ascoltare quello che Erwitt, a modo suo, ha voluto raccontarci.
Nella sua carriera ha conosciuto e ritratto volti noti come Marilyn Monroe, Kennedy, Che Guevara. Ricorda qualche aneddoto legato ai momenti trascorsi con questi personaggi che – ciascuno a proprio modo – hanno fatto la storia?
Sì, sì, li ricordo.
(pausa)
Le va di mettercene a parte?
Una volta ho realizzato, in collaborazione con uno scrittore, un racconto fotografico sulle esperienze di guerra di Kennedy. È una storia che poi è apparsa in cinque puntate su una rivista americana: Kennedy è stato ferito in guerra, nel Sud Pacifico, la sua nave è affondata e per salvarsi ha dovuto nuotare fino a riva. Così sono andato alla ricerca di tutte le persone coinvolte in quell’affondamento per fotografarle, compreso il capitano della nave giapponese che aveva affondato quella su cui si trovava Kennedy. Non è un aneddoto, ma sicuramente è una delle cose più interessanti che ricordo, e dimostra la necessità del fotografo di andare a fondo nella storia.
Il fotografo in effetti è fortunato (anche se il suo lavoro richiede più fatica), in quanto lo scrittore non è obbligato a partecipare e intervenire nella storia per raccontare l’evento. Il fotografo sì.
Fra tutti i personaggi noti che ha fotografato, quale ha lasciato in lei l’impronta più forte, fotograficamente e personalmente?
Mia figlia minore. Non trovo nessuna differenza nel fotografare qualcuno di famoso e qualcuno di non famoso. Sono persone come le altre. Immaginiamo se Marilyn fosse viva: avrebbe ottantadue anni. È difficile da concepire questo pensiero… In effetti, morire giovani è una straordinaria mossa per la propria carriera!
Crede che un buon ritratto possa essere il risultato del rapporto che s’instaura con la persona fotografata?
È sempre interessante sapere qualcosa di chi fotografi, ma non è essenziale. Molto spesso incontri la persona da fotografare per pochissimo tempo, ma se osservi le circostanze, il linguaggio del corpo, il contesto in cui vive, riesci a prendere delle decisioni rapide e capire come va rappresentata.
Questo dipende dalla capacità del fotografo di entrare nella storia?
Sì, è una questione d’istinto.
Gran parte della sua produzione fotografica è dedicata ai cani. In un’intervista dichiara che non sapeva di aver fotografato tutti quei cani (perché lo aveva fatto, appunto, per istinto) finché non ha riguardato le sue immagini. Solo in seguito ha razionalizzato questa sua preferenza, ci ha lavorato su e ha prodotto numerosissimi libri e mostre. Questa “prassi” che antepone l’inconscio alla ragione può rappresentare il fil rouge della sua vita fotografica?
Mh, mh (annuisce, n.d.r.).
…?
(pausa)… C’è un nuovo libro che uscirà presto e che si chiama Unseen (“Non visti”). Erano foto che non sapevo di avere e che ho scoperto riguardando i miei provini a contatto. Il metodo è proprio quello di continuare a osservare i provini, che sono la parte più importante per il lavoro del fotografo. Guardandoli, infatti, trovo dei temi o dei soggetti che non sapevo di aver incontrato e fotografato. Quindi non solo li posso tirar fuori per costruire un libro o una mostra, ma gli stessi scatti mi danno l’ispirazione o la motivazione per nuovi lavori. Con questo criterio, ad esempio, sto lavorando ora ad un libro sui bambini.
Guardando le sue foto, sembra esistere una vera e propria “filosofia dell’incontro con l’immagine”, un appuntamento “casuale e surreale” che ha con le fotografie scattate in tutto il mondo. È così?
In verità la gente tende a vedere cose che personalmente non vedo. Io scatto solo le foto.
È un bene se chi guarda le sue foto vede qualcosa in più, non trova?
Sì, così non ci devo pensare io! (ridacchia ironico, n.d.r.)
Elio Romano è il suo nome italiano, e la storia della sua vita la vede molto legato alla nostra nazione. In quali fotografie “vorrebbe incappare” (fra quelle che ancora non ha trovato) con la sua macchina a tracollo, in giro per l’Italia?
Ho scattato molte foto in Italia, ma spero di poterne fare altre ancora perché qui mi sento a casa. La parte più visuale a mio parere è da Firenze in giù.
Nel 2000 è stato il fotografo del calendario Lavazza. Come ricorda quell’esperienza?
Mi piace molto il lavoro commerciale: paga tanto per uno sforzo minimo e Lavazza è stato un cliente meraviglioso. Essenzialmente sono un fotografo commerciale con l’hobby della fotografia.
Quanto è importante per la sua carriera l’esperienza nell’Agenzia Magnum?
Importantissima. Ho fatto tutta la mia carriera in Magnum, ho cominciato lì nel ’53 e finirò lì.
Per ogni lavoro realizzato, una grossa parte di guadagno viene girata alla Magnum e reinvestita nell’agenzia. Magnum è una specie di club e ciascuno a turno deve collaborare anche negli aspetti amministrativi. Io sono stato presidente e vicepresidente negli anni ’60 e ’70.
C’è un lavoro realizzato per l’agenzia che ricorda in particolar modo per difficoltà o per soddisfazione?
Ogni progetto ha la sua complessità, ma è la professionalità del fotografo che permette sempre di venirne a capo.
Eseguire un progetto fotografico commerciale, che sia per una rivista o per un altro committente, è un lavoro molto logico, quindi hai già un’idea di quale sarà il risultato. Mentre se vai semplicemente in giro a fare foto, non sai ciò che potrà capitarti. Quindi non si può avere lo stesso approccio all’immagine.
Fra la fotografia commissionata e quella scattata per hobby, quale preferisce?
Entrambe. La parte commerciale mi permette economicamente di fare l’altra parte, quella della passione. E non solo: la fotografia commerciale è quella che mi dà l’opportunità di andare in giro per il mondo e mi porta in luoghi dove posso fare il fotografo per hobby.
Il “quid” in più che rende speciale il fotografo Elliott Erwitt è allora la capacità di aver mantenuto la freschezza dello sguardo, tipica di chi vive l’hobby della fotografia. Questa magia si tende a dimenticare quando si è fotografi commerciali.
È vero. Alcuni fotografi prendono la macchina solo quando devono farlo. Questo non significa che non siano bravi. Ma tutta quella “scuola di fotografi”, come anche Berengo (Gardin n.d.r.), per fare un esempio italiano non Magnum ma vicino alla filosofia dell’agenzia americana, porta la macchina fotografica con sé sempre. Il momento giusto… “is very important”! (sorride).
A quali progetti sta lavorando?
Adesso… Cosa faccio adesso…? A parte un libro che esce il prossimo anno e su cui sto ancora lavorando, non ho un progetto specifico. Ogni anno mi prendo due, tre settimane e vado in un posto. Penso che tornerò in Giappone, dove vado spesso. È un Paese che trovo molto simpatico… per le foto, eh!
I tempi sono cambiati e con essi la storia, la gente e le “fotografie da incontrare”. Quale consiglio darebbe ai giovani che hanno davvero voglia di fare della fotografia una professione?
Purtroppo c’è meno posto per i fotografi, e la fotografia paga meno. Il mio suggerimento è che facciano i fotografi come hobby. Generalmente, quando mi domandano qual è il modo migliore di essere fotografi per un giovane al giorno d’oggi, io rispondo: “essere un ricco ereditiere”. Così puoi farlo non per professione ma per passione; sei libero, e nel frattempo qualcosa di buono può succedere.
Che tipo di attrezzatura usa?
Di tutto. Ho praticamente un negozio di macchine fotografiche: dalla Deardorff, un banco ottico americano in legno 20x25cm, alla Sinar, e poi la Rolleiflex… Molte di queste macchine sono scelte in funzione del lavoro che devo svolgere. Ad esempio se devo scattare foto di architettura, uso il banco ottico; quando invece vado in giro, solitamente mi porto una Leica con il 35mm.
C’è una foto che preferisce nella sua vasta produzione?
Quella che scatterò domani.
Tornando alle tre parole?
Oh… (smorfia di ironico sconforto, n.d.r.) Keep taking pictures, continuare a fotografare!
Qualcosa in più su Elliott Erwitt
Nato a Parigi nel 1928 da genitori russi, Elliott Erwitt trascorre l’infanzia a Milano. Nel 1939 emigra con la famiglia in Francia e quindi negli Stati Uniti, e trascorre l’adolescenza a Hollywood, dove sviluppa un forte interesse per la fotografia: lavora in un laboratorio fotografico e in seguito studia presso il Los Angeles City College. Nel 1948 si trasferisce a New York, dove lavora come custode per pagarsi i corsi di cinematografia alla New School for Social Research.
Nel 1949, con la sua fedele Rolleiflex, Erwitt intraprende un viaggio in Francia e in Italia. Nel 1951 svolge il servizio militare presso l’unità dell’Army Signal Corps, in Francia e Germania, dove gli verranno assegnati diversi compiti inerenti la fotografia.
Mentre si trova a New York incontra Edward Steichen, Robert Capa e Roy Stryker, l’ex capo della Farm Security Administration. È proprio quest’ultimo a far assumere Erwitt dalla Standard Oil Company, dove egli stesso sta realizzando una fototeca aziendale, affidandogli un progetto di documentazione della città di Pittsburgh.
Nel 1958 Erwitt entra a far parte della Magnum Photos, lavorando inoltre come freelance per Collier’s, Look, Life, Holiday e altre pubblicazioni nel periodo d’oro delle riviste illustrate. Ancora oggi continua a collaborare con numerose testate giornalistiche e agenzie di pubblicità.
Alla fine degli anni Sessanta, viene nominato presidente della Magnum, carica che ricopre per tre anni, mentre successivamente si dedica al cinema. Negli anni Settanta gira diversi importanti documentari, durante gli anni Ottanta realizza diciassette commedie per la Home Box Office.
È noto per l’ironia benevola e l’umanissima sensibilità, in perfetto accordo con lo spirito dell’agenzia Magnum.