Ad arricchire il festival Fotografia Europea di Reggio Emilia – che quest’anno si concentra su uno spaccato sentitamente più politico e sociale, rispetto alle edizioni passate, con il focus Europe Matters. Visioni di un’identità inquieta – la grande mostra di Ivor Prickett, No Home from War: Tales of Survival and Loss, alla Collezione Maramotti. Una carrellata temporale, dagli inizi nel 2006 fino ad oggi, in cui si rende visibile l’intero percorso fotogiornalistico di Prickett. L’abbiamo intervistato per farci raccontare il suo lavoro.
Quando e come hai scelto il linguaggio fotografico per raccontare il mondo?
Penso che il linguaggio fotografico sia qualcosa che è in continua evoluzione e cambiamento, almeno così è stato per me. Non è che mi sono seduto e ho pensato a come volevo che le mie foto apparissero e poi le ho eseguite. Ci sono voluti anni di tentativi ed errori, in una costante evoluzione.
La mostra alla Collezione Maramotti è un viaggio a ritroso lungo tutta la tua produzione fotografica. Rispetto ai tuoi primi lavori del 2006, in quelli più recenti si nota un evidente cambio di prospettiva di narrazione. Inizialmente il tuo sguardo si è concentrato su una dimensione più domestica e familiare - come nel caso del lavoro sulla popolazione serba in Croazia, sfollata negli anni Novanta a causa della guerra, o ancora quello sulla popolazione mingreliana georgiana in Abkhazia - per poi, negli ultimi anni, raccontare il mondo con modalità più reportagistiche. A cosa è dovuto questo cambio di prospettiva?
L’idea di base rimane la stessa, ma penso di aver cambiato il mio modo di lavorare per trasmettere meglio il messaggio. Nel 2006 ero ovviamente molto più giovane e avevo tanto da imparare, lavoravo in un modo più tranquillo e discreto. Quel tipo di approccio si adattava alla mia personalità e in un certo senso stavo solo cercando di definirmi facendo qualcosa di diverso. Lentamente, quando ho iniziato a coprire più storie di tipo breaking news, ho iniziato a rendermi conto che non stavo davvero raggiungendo un pubblico abbastanza grande o avendo un grande impatto con il mio lavoro. Ero troppo introspettivo per penetrare in tutto quel rumore, forse.
Così ho iniziato a sviluppare un approccio più fotogiornalistico. Non tanto stilisticamente ma più in termini di contenuti. Ho iniziato a pensare a qualcosa di più che cercare di fare belle foto. Principalmente è stata una progressione naturale, ma ho iniziato a capire che per produrre un lavoro d’impatto avevo bisogno di fare immagini sorprendenti che fossero intrise di umanità e pathos, e allo stesso tempo raccontassero storie importanti. Ho iniziato a combinare meglio queste cose e, in un certo senso, ho abbandonato i miei intenti artistici che mi stavano, invece, limitando.
L’elemento della luce nella tua produzione è sicuramente un elemento di significato molto importante, che rende iconiche le tue fotografie, portando alla mente le immagini sacre e i grandi maestri della storia dell’arte. Ce ne parli?
Come fotografo documentarista, ho sempre avuto la convinzione di dover utilizzare la luce naturale per il mio lavoro, vale a dire di non alterare in alcun modo l’ambientazione. Quando ho iniziato, all’università, mi è stato insegnato a scattare usando la pellicola, prima 35mm e poi gradualmente fino al medio formato e persino al grande formato. Sono stati anni di alta formazione: dall’esposizione del negativo, allo sviluppo della pellicola, fino alla stampa delle nostre fotografie. Penso che questo apprendimento precoce del mezzo abbia davvero contribuito a plasmare il mio modo di comprendere la luce e come sfruttarla. Sono stato anche fortemente influenzato da alcuni dei miei coetanei più anziani dell’Università di Newport, dove questo stile di fotografia documentaria di medio formato era molto diffuso.
Quando scatti su pellicole a colori di medio formato devi essere molto preciso con le tue esposizioni e capire esattamente come la luce può funzionare sia in tuo favore sia a tuo svantaggio. Al giorno d’oggi produrre un’immagine con fotocamere digitali di fascia alta è totalmente diverso: è possibile scattare in quasi tutte le condizioni di illuminazione con ISO estremamente elevati, inoltre si possono commettere molti errori e recuperare comunque un’immagine utilizzabile.
Inizialmente mi sono trovato ad essere interessato al modo in cui la luce naturale poteva essere utilizzata, e sfruttata, per fotografare la vita domestica in un modo che ricordava la pittura classica. Per me, soprattutto all’inizio, questo modo di intenderla è stato un pensiero inconscio, ma poi, dopo aver ricevuto numerosi commenti sulla somiglianza delle mie immagini con pittori come Rembrandt o Caravaggio, mi sono reso conto che questo stile si era, in qualche modo, infiltrato nel mio pensiero fotografico.
Ma ero anche ben consapevole del potere del giornalismo e di quanto fosse importante essere in prima linea nella storia come lo erano fotografi come McCullin. È stato durante questo periodo universitario, mentre stavo lavorando ai miei primi progetti seri e scrivendo anche la mia tesi, che ho iniziato a costruire una mia visione come fotografo. Durante il mio ultimo anno a Newport ho iniziato a lavorare alla mia serie sui serbi in Croazia, la prima traccia di uno stile che avrei fatto mio in seguito.
Pensi che il fotogiornalismo possa ancora dare il suo contributo nelle menti e nello sguardo della popolazione?
Sì, penso che il fotogiornalismo avrà sempre il suo posto nella comprensione del mondo da parte delle persone. Cosa facciano, poi, quelle persone con quella comprensione o conoscenza è un’altra questione. Credo che la guerra in Ucraina sia l’esempio più recente e viscerale di questo pensiero. All’inizio della guerra, l’Ucraina non aveva davvero il sostegno di cui aveva bisogno per affrontare una guerra contro un paese molto più grande di lei come la Russia. Se non fosse stato per il coraggio di alcuni miei colleghi fotogiornalisti che sono rimasti in Ucraina, anche se l’invasione russa era sempre più ingente, a raccontare quello che stava succedendo, sia il sostegno pubblico, sia quindi la reazione dei governi non sarebbero stati così unanimi, secondo me.
Qual è il tuo personale approccio nel raccontare i territori in guerra? Hai una tua “estetica della guerra”?
Il mio approccio personale alla fotografia di guerra è una combinazione di diversi criteri e sistemi di convinzioni. Giornalisticamente solido, esteticamente intrigante, eticamente e moralmente impegnato. Così descriverei il mio approccio nel raccontare i territori di guerra.
La guerra in Ucraina l’hai raccontata facendo leva particolarmente sull’uso di contrasti molto accentuati tra luci e ombre. Un’oscurità molto più scenografica rispetto ai tuoi precedenti lavori di reportage. Cosa è cambiato nella tua visione, o in cosa la guerra in Ucraina si è differenziata dalle altre, per farti decidere di raccontarla così?
Penso che ogni progetto su cui si lavori sia diverso e che l’approccio, che solitamente si usa, debba rimanere adattabile. Ho anche notato come le mie foto dall’Ucraina siano molto vuote e desolate. Penso che tale vuoto e desolazione voglia dare il senso visivo della fuga di molte persone dalle aree in cui si combatteva in prima linea, compreso Kiev. Nelle mie fotografie rimane, invece, il paesaggio distrutto e le tracce di una vita passata, per cercare di far percepire che l’Ucraina non è sempre stata così vuota.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Ivor Prickett sono nel sito ufficiale del fotografo ivorprickett.com, mentre ulteriori dettagli sulla XVIII edizione di Fotografia Europea sono su fotografiaeuropea.it.
Ivor Prickett. No Home from War: Tales of Survival and Loss
- Collezione Maramotti, via Fratelli Cervi 66 – Reggio Emilia
- dal 30 aprile al 30 luglio 2023
- ingresso gratuito
- collezionemaramotti.org