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Home LIBRI IN LIBRERIA

L’Afghanistan oltre il burqa, il kalashnikov e il turbante

Con il libro “It Can Never Be the Same” Lorenzo Tugnoli tenta di raccontare l’Afghanistan evitando gli stereotipi narrativi.

Francesca Orsi di Francesca Orsi
8 Ottobre 2025
in IN LIBRERIA, INTERVISTE
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Nangarhar, Afghanistan, dicembre 2019
Nangarhar, dicembre 2019. Un combattente talebano aspetta di muoversi insieme alla sua unità nel distretto di Khogiani. Negli anni che hanno preceduto la presa del potere, i Talebani controllavano quasi metà del paese, stabilendo gradualmente forme di governo provvisorio. Prima del 2019 era estremamente difficile incontrare i Talebani e raccontare questo lato della guerra. Una finestra di opportunità si è aperta quando sono iniziati i colloqui ufficiali tra i Talebani e il governo degli Stati Uniti.

Lorenzo Tugnoli conosce bene l’Afghanistan, ci ha vissuto per molti anni. È proprio questo tempo dilatato che gli ha concesso uno sguardo “altro” sul Paese, uno sguardo che andasse oltre il racconto giornalistico convenzionale. Il suo libro It Can Never Be the Same – che sarà pubblicato a ottobre dalla casa editrice GOST – cerca di generare nel lettore una consapevolezza sull’argomento fuori da ogni schema, priva di giudizi o verità; un semplice spazio attraverso cui apprendere una storia stratificata e complessa. Ne abbiamo parlato con l’autore.

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In che momento storico hai iniziato a fotografare in Afghanistan e come il tuo reportage è riuscito a cogliere anche la trasformazione di un territorio in guerra?

Sono stato in Afghanistan per la prima volta nel 2009 e pochi mesi dopo mi sono trasferito a Kabul, dove ho vissuto fino al 2015. Erano anni in cui il conflitto era diffuso in gran parte del Paese, ma restava viva la speranza di uno sviluppo democratico ed economico. In Afghanistan ho imparato il mestiere e ho iniziato la mia carriera. Sono poi tornato a lavorarci in modo continuativo nel 2019, quando sono iniziati i negoziati diretti tra Talebani e governo americano.

Kabul, Afghanistan, marzo 2020. © Lorenzo Tugnoli
Kabul, marzo 2020. Curiosi osservano il luogo di un attacco dell’ISIS che ha causato 32 morti e più di 80 feriti in un quartiere sciita di Kabul il 6 marzo 2020. L’attacco è avvenuto pochi giorni dopo la firma di un accordo di pace tra Stati Uniti e Talebani.

Quei colloqui hanno escluso il governo afghano e le esigenze della popolazione. Mentre gli Stati Uniti iniziavano il ritiro, i Talebani avanzavano fino a riprendere il controllo del Paese, ancor prima che le ultime truppe lasciassero Kabul. Ho continuato a documentare l’Afghanistan nei due anni successivi, sotto il nuovo regime. Questa fase — dai negoziati al ritorno dei Talebani al potere — è il nucleo del lavoro raccolto in It Can Never Be the Same.

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It Can Never Be the Same non è un semplice reportage, ma anche un momento di riflessione sul tuo lavoro, sul ruolo del fotografo e sul concetto di rappresentazione della guerra. Come il tuo lavoro si discosta dalla narrazione con cui solitamente vengono raccontate le zone di conflitto?

Il libro nasce come una riflessione su come l’Afghanistan sia stato osservato e raccontato nel tempo. Allo stesso modo interroga il ruolo che il giornalismo ha avuto nel formare l’immagine delle popolazioni soggette a occupazioni e conflitti.
Ho sviluppato questo progetto insieme a Francesca Recchia, ricercatrice che ha vissuto molti anni in Afghanistan. Con lei ho lavorato alla sequenza fotografica e alla struttura visiva del volume.
Un punto di partenza è stata la constatazione che lo sguardo sull’Afghanistan sia rimasto sorprendentemente uniforme, nonostante i passaggi storici radicali che l’hanno coinvolto: dall’occupazione sovietica al primo Emirato talebano, fino all’occupazione americana e al ritorno dei Talebani.

Sangin, Afghanistan, giugno 2022
Sangin, giugno 2022. Pazienti e familiari affollano l’ingresso di un piccolo ospedale nella città di Sangin. La clinica si trova in un edificio fatiscente la cui costruzione non è mai stata completata. Sangin è una piccola città nella provincia di Helmand, nel sud del Paese, e durante la guerra è stata teatro di intensi combattimenti. Queste aree rurali oggi sono più sicure rispetto al passato, ma continuano a vivere in condizioni di grave povertà.

Da qui il titolo It Can Never Be the Same, che, per me, però, ha anche altri livelli di significato: mette in chiaro da subito la posizione dell’autore che guarda a quel luogo da straniero che continua a tornarci, e allo stesso tempo pone l’accento sulle sfide etiche e giornalistiche della rappresentazione. Riflette sullo scarto che avviene tra vivere un’esperienza e testimoniarla, e tra l’esperienza stessa e l’immagine che cerca di raccontarla. Il testo finale, dell’autore afghano Habib Zahori, serve da contrappunto a questa narrazione dall’esterno, raccontando l’esperienza diretta di chi è nato in un Paese e ha visto arrivare e ripartire gli stranieri durante le occupazioni successive.

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L’intento del bianco e nero e di un uso molto contrastato tra luci e ombre ha un effetto drammatizzante. Perché hai voluto sottolineare questo aspetto?

Ci sono vari fattori che mi hanno portato alla scelta del bianco e nero. Nel mio percorso fotografico questa decisione è stata inizialmente ispirata da un certo tipo di fotogiornalismo che ho guardato con ammirazione all’inizio della mia carriera.
Il bianco e nero evoca il passato e conserva un fascino legato alla presunta autorevolezza giornalistica e all’associazione con lavori più di lungo termine, di approfondimento e avvicinamento alle persone, contrapponendosi alle foto di cronaca a colori, prodotte, pubblicate e dimenticate in poche ore.

Kabul, Afghanistan, ottobre 2022
Kabul, ottobre 2022. Studenti frequentano una lezione in una madrasa di Kabul. Dopo che il governo talebano ha vietato alle ragazze di frequentare le scuole regolari, un numero crescente di ragazze si è iscritto alle scuole religiose.

Il modo in cui questo linguaggio visivo è poi stato impiegato nel libro sottolinea la mia maturazione relativamente a questo argomento: non offro verità o accuse, ma costruisco un mondo che racconta una guerra nella sua ambiguità di significato, che racconta l’esperienza di fare il lavoro di giornalista in un Paese che sfugge a letture lineari. Non cerco di mostrare la ‘verità’ di un Paese che in fin dei conti, anche se l’ho vissuto per più di un decennio, non è il mio.

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L’Afghanistan è rimasto a lungo al centro di una missione dal significato incerto: iniziata come reazione agli attentati dell’11 settembre, è proseguita per vent’anni con la promessa di portare diritti e sviluppo, una narrazione che si è rivelata completamente falsa quando la NATO e gli Stati Uniti hanno abbandonato il Paese lasciando gli afghani di nuovo sotto il regime dei Talebani e tagliando quasi tutti i fondi per gli aiuti umanitari.

Wardak, Afghanistan, ottobre 2021
Wardak, ottobre 2021. Zalmay Adil, 16 anni, raccoglie offerte per la madrasa locale lungo la Highway 1, vicino al suo villaggio natale di Andar. Un tempo la madrasa insegnava ai giovani il concetto di jihad, o guerra santa, preparandoli ideologicamente ad unirsi ai Talebani e a combattere contro le forze americane e i loro alleati afghani.

Hai lavorato alla selezione e all’editing delle immagini a distanza di tempo, rispetto alla loro realizzazione. Che contributo ha dato la possibilità di rifletterci a posteriori?

Ho cominciato a pensare al libro e all’editing nel 2023, mentre stavo ancora scattando. Ma il libro è stato realizzato con un approccio diverso rispetto a come sceglievo le immagini da inviare ai giornali con cui collaboravo. Per l’editing editoriale ho voluto riprendere in mano tutto quello che avevo scattato in cinque anni di lavoro. Non mi interessava trovare le immagini ‘migliori’ ma le immagini che potevano servire alla riflessione che il libro porta avanti e di cui parlavo prima. Le fotografie sono state scattate, nella maggior parte dei casi, su assegnato per il Washington Post, che le ha lavorate e pubblicate a colori. Ora le ho volute riproporre per un altro fine, per interrogarci sulla natura del guardare e del raccontare.

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Esiste, secondo te, un’estetica della guerra?

Riflettendo sulla tradizione del fotogiornalismo, è evidente come ruoti, di frequente, attorno a una serie di iconografie che si ripetono: il soldato con il fucile, il bambino tra le macerie, la donna in lutto accanto alla bara, il rifugiato nella tenda.
Il punto del libro non è quello di superare questo tipo di estetica, che fa parte del mio bagaglio culturale e di una tradizione che rispetto, ma di lavorare sulla complessità e la profondità del messaggio.
Ciò che, per me, ha fatto la differenza è stato il tempo. Il mio modo di guardare all’Afghanistan si è trasformato profondamente nei molti anni vissuti lì. È un luogo che conosce la guerra da decenni e che è stato fotografato da generazioni di fotogiornalisti prima di me.

Herat, Afghanistan , novembre 2022
Herat, novembre 2022. Una donna accompagnata dal fratello partecipa a un’udienza in un tribunale gestito dai Talebani su una disputa per la proprietà di un terreno. Dalla proclamazione dell’Emirato, in molti hanno riproposto vecchie cause ai nuovi tribunali gestiti dai Talebani, che considerano meno corrotti e più accessibili. Tuttavia, secondo il nuovo sistema, agli imputati nei processi penali non è consentita l’assistenza legale e le donne possono accedere ai tribunali solo se accompagnate da un parente di sesso maschile.

Come accade a molti fotografi al loro primo impatto con l’Afghanistan, anche io ho avuto la necessità di costruire le immagini che ci si aspetta di questo paese: il burqa, il kalashnikov, il turbante. Ma il fatto di poter restare a lungo mi ha dato l’opportunità di riflettere su questi cliché visivi. Lentamente ho cominciato ad essere più attento a ciò che davvero conta per chi vive nel Paese: una società con una cultura stratificata e una storia millenaria, che sfugge alle semplificazioni attraverso cui spesso viene rappresentata.

Nel realizzare un (ennesimo) libro sull’Afghanistan, non posso fare a meno di prendere coscienza dei fotografi che ci hanno lavorato prima di me, da James Nachtwey a Steve McCurry fino a Simon Norfolk. Mi chiedo spesso quale possa essere il mio posto in questa tradizione e cosa io, con il mio lavoro, riesca davvero ad aggiungere o a mostrare in modo diverso rispetto a chi mi ha preceduto. Questa domanda fa proseguire i miei progetti.

Kabul, Afghanistan, febbraio 2019
Kabul, febbraio 2019. Il sole del pomeriggio in una tenda nel campo profughi di Hussain Khail alla periferia di Kabul. La maggior parte delle persone nel campo proveniva dalla provincia settentrionale di Kunduz, affetta da violenti combattimenti tra Talebani ed esercito afghano. Ogni famiglia ha una storia di guerra drammatica; molti sono stati feriti nel fuoco incrociato o hanno perso familiari nei combattimenti.
Lashkar Gah, Afghanistan, maggio 2021
Lashkar Gah maggio 2021. Una veduta delle montagne scattata da un aereo militare in viaggio da Lashkar Gah all’aeroporto di Kandahar. In quel periodo, l’esercito afghano faticava a contenere l’avanzata talebana verso i principali centri urbani e viaggiare via terra era estremamente pericoloso.

Ulteriori fotografie e informazioni sul lavoro di Lorenzo Tugnoli sono disponibili sul sito del fotografo www.lorenzotugnoli.com.

Lorenzo Tugnoli cover It Can Never Be the Same

Titolo It Can Never Be the Same
Fotografie di Lorenzo Tugnoli
Formato 30,7 x 24,5cm
Pagine 116
Immagini 79
Lingua inglese
Editore GOST
Data pubblicazione ottobre 2025
ISBN 9781805980025

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