
Vincitore del World Press Photo 2025 come Long-Term Project della regione Africa, Women’s bodies as battlefields di Cinzia Canneri è un progetto che parte da lontano e che definisce, in un qualche modo, la stessa carriera della fotografa italiana. Particolarmente attenta alle tematiche che riguardano la questione femminile e di genere, l’immigrazione e i diritti umani, Cinzia, dal 2017, si è completamente immersa nella realtà di quelle donne che, scappando dalla dittatura eritrea, hanno iniziato il loro viaggio verso un barlume di salvezza.
Abbiamo parlato direttamente con l’autrice del suo lavoro.
Qual è la storia dietro al tuo ultimo lavoro Women’s bodies as battlefields, vincitore del World Press Photo 2025 come Long-Term Project?
La storia del progetto riguarda l’uso della violenza sessuale sulle donne come arma di guerra, impiegata in modo sistematico e con uno scopo politico.
Prima di tutto, ho analizzato il viaggio delle donne eritree in fuga dalla dittatura nel loro Paese, una delle più oppressive al mondo. Il loro viaggio, rispetto a quello degli uomini, è molto più complesso e lungo. Spesso si interrompe ai confini, perché molte madri non vogliono separarsi dai figli rimasti a combattere o sepolti nella terra natale. Questa parte del progetto l’ho prodotta tra il 2017 e il 2019. Ho voluto trattare la violenza sulle donne analizzandola non solo come diretta azione delle forze che la perpetrano, ma anche in maniera indiretta, mostrando come, ad esempio, alcune donne si sottopongano a iniezioni ormonali per proteggersi da eventuali aggressioni durante il viaggio.
La seconda parte del progetto, invece, ha interessato lo scoppio della guerra in Tigray, nel 2020, durante la quale tutte le forze coinvolte nel conflitto hanno utilizzato la violenza sessuale come arma di guerra. Le donne eritree e tigrine, residenti in Tigray, si sono unite nella fuga verso il Sudan o Addis Abeba. L’esercito eritreo ha usato la violenza sessuale sia contro le donne eritree che contro quelle tigrine, con intenti differenti: sulle eritree come forma di punizione, sulle tigrine come strumento di sterminio.
I loro corpi sono diventati, così, dei veri e propri campi di battaglia, senza schieramenti precisi, comprensibili o identificabili. Da qui è nato il mio progetto Women’s Bodies as Battlefields.
Come ti sei avvicinata a questa tematica?
Intorno al 2017 sentivo il desiderio di iniziare un mio progetto fotografico che mi presentasse alla comunità internazionale come fotografa. Prima di allora, ho lavorato come educatrice professionale e, successivamente, come psicologa nel sociale.
La fotografia l’ho scoperta alla fine degli anni Novanta, organizzando un corso per alcuni utenti di un centro diurno con disturbi psichici. Me ne ero innamorata ed era rimasto in me come un amore profondo, mai del tutto sopito.
La scelta di raccontare le donne eritree nel loro viaggio nasce da più motivazioni. Innanzitutto, in Italia – soprattutto intorno al 2014 – arrivavano molti uomini eritrei e pochissime donne. Così mi sono posta delle domande su questa disparità. Inoltre, ero anche interessata all’Eritrea e all’Etiopia in quanto terre segnate dal colonialismo italiano, e attribuivo parte delle responsabilità dei conflitti che le attraversano anche al mio Paese.

Un Paese che ha onorato il giornalista Indro Montanelli con una statua, nonostante durante la guerra del 1935 avesse “comprato” una ragazza eritrea – insieme a un cavallo e a un fucile. La ragazza si chiamava Destà. Montanelli scrisse che gli ci volle del tempo per superare “il suo odore di capra”.
Mi sono sentita, e mi sento ancora, profondamente offesa come donna davanti a una cultura così violenta nei confronti delle donne. La violenza di genere è trasversale, ma la vulnerabilità legata a razza e classe sociale contribuisce ad amplificarne la complessità.
È dal sentirmi offesa da questa violenza generalizzata, sociale e di genere, che nasce l’idea del mio lavoro.
Il corpo rappresentato nel tuo progetto non è solo un teatro di ferite fisiche, ma anche un concetto di corpo che racconta la forza collettiva, la comunità femminile…
Il corpo è segnato da cicatrici che rappresentano un segno indelebile, qualcosa che permane nel tempo come parte di sé, della propria identità e storia. È la materializzazione di un trauma, ma in questo suo diventare materia diviene anche “altro” dall’azione del male. Vi è una trasformazione psichica, emotiva e di significato. Anche di visione di sé. Non è più deformazione, ma appartenenza attraverso un processo di ridefinizione. I corpi di queste donne, individualmente, sono feriti, ma, collettivamente, rivendicano giustizia, esprimono forza e capacità non solo di sopravvivere, ma di mirare a un cambiamento.
Qual è stato l’approccio con i tuoi soggetti?
Per la realizzazione del progetto sono entrata a far parte della comunità di queste donne, seguendo molte delle loro cause e promuovendo attivamente iniziative dove le mie foto sono state messe al servizio di alcune loro attività. Stare con loro, prima attraverso una relazione umana e poi come fotografa, mi ha dato accesso alla loro fiducia, riuscendo, così, a fotografarle in situazioni molto intime.
La relazione umana è la base della mia idea di fotografia, in cui lo scatto rappresenta l’ultimo tassello. La mia pratica nasce, infatti, senza macchina fotografica: quando la prendo in mano è perché sento che può diventare quasi invisibile, percepita come un’estensione di me. L’altro si racconta allora con la stessa naturalezza di quando si condivideva un caffè, una risata o un pianto.
Molti dei miei ritratti nascono insieme al soggetto. Anche nei ritratti in posa, forse ancora di più, considero riuscito uno scatto solo se esprime una relazione autentica, se la consapevolezza dello sguardo si dissolve per lasciare spazio a un racconto intimo.
Anche gli oggetti presenti nel mio lavoro fanno parte di una specifica narrazione. Come nel caso, ad esempio, di una madre che mi parla della morte di sua figlia e mi mostra ciò che le apparteneva. Oggetti che diventano ceneri di un corpo sepolto in un luogo lontano, irraggiungibile. O ancora, gli oggetti del Museo dei Martiri di Makelle, che testimoniano le violenze subite dalle donne e che oggi i tigrini espongono come forma di protesta contro il mancato riconoscimento di quanto commesso da parte del governo federale etiope.
Quale ruolo assume la luce nella tua produzione e come l’hai gestita specificatamente in questo lavoro?
Per questo lavoro ho scelto il bianco e nero perché ero interessata a trascendere il reale, per valorizzare la realtà soggettiva e comunitaria delle donne del mio racconto. Dunque, la luce ha avuto un ruolo fondamentale: quando uso la luce naturale è perché individuo un riflesso, un’oscurità o un’atmosfera che mi descrivono quel contesto indipendentemente da me; dall’altra parte, invece, quando uso la luce artificiale è perché direziono io il racconto su un qualcosa che voglio definire e che non nasce dal contesto naturale, ma per esempio da qualcosa che mi è stato raccontato dalla persona che fotografo.
Recentemente, dall’esperienza di questo tuo progetto, hai fondato la Fondazione Cross Looks. Ce ne parli?
Quasi due anni fa ho iniziato a pormi delle domande che mettevano in discussione il mio modo di lavorare. Per me, fare fotografia significa intraprendere una ricerca personale, alla costante scoperta di nuovi significati e visioni che non si limitano soltanto allo sguardo.
Quando, come fotografi, ci rechiamo in terre vulnerabili come quelle africane, lo facciamo portando con noi un potere che deriva dalla nostra posizione di occidentali. Un potere economico, di mobilità, di ruolo sociale, che si ottiene anche attraverso il lavoro che svolgiamo in questi contesti.
Ho iniziato così a credere che non sia sufficiente lavorare basandosi solo sul rispetto umano o su una collaborazione con le diaspore e le comunità locali, se queste non hanno un reale potere trasformativo sul nostro operato. La collaborazione autentica è possibile solo quando tutte le parti coinvolte hanno la possibilità di agire e partecipano a decisioni condivise. Durante gli anni di lavoro su Women’s Bodies as Battlefields ho incontrato associazioni, giornaliste e attiviste locali e con alcune di loro – tutte donne – abbiamo dato vita a “Cross Looks” che mira a ricercare narrazioni condivise per contrastare gli stereotipi emergenti quando non si è immersi né si è parte della cultura del contesto narrato.
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