Zed Nelson inizia come fotoreporter, per poi passare alla documentazione della cultura e del consumismo americano e dell’amore spassionato per le armi da parte del popolo a stelle e strisce. L’autore torna infine a casa, a Londra, per raccontare di Hackney, il suo quartiere. In mezzo a questi tre importanti passaggi della sua carriera molti altri progetti, alcuni dei quali raccontati direttamente dalla sua testimonianza nell’intervista che segue.
Qual è la tua storia relativa alla fotografia? Come hai iniziato a fotografare?
Ho iniziato a fotografare all’età di dieci anni. Mia madre aveva una vecchia macchina fotografica Pentax da 35mm e io andavo in giro a scattare fotografie. Mentre visitavo la campagna, fotografavo le mucche nei campi con dei ritratti molto ravvicinati, concentrandomi sui loro occhi. La macchina fotografica mi ha reso più avventuroso e più attento, incoraggiandomi a guardare davvero. Questo è ancora ciò che amo della fotografia.
Tra i tuoi tanti lavori hai speso molto tempo ad indagare l’Inghilterra, e nello specifico Londra dove lavori e vivi, e l’America. Hai osservato le crepe della società e della cultura di questi Paesi. Cosa ti ha affascinato di più fotografare?
Ho sempre viaggiato molto, per osservare e capire altre culture. All’inizio della mia carriera sono stato attratto dal fotografare aree di conflitto. Sono stato in Somalia, Afghanistan, Angola, El Salvador, Sierra Leone, Israele e Sud Sudan. Le mie immagini si concentravano sulle vittime dei conflitti, ma volevo anche capire le politiche che avevano creato queste situazioni.
La Somalia del 1992 è stata la prima situazione scioccante a cui ho assistito come giovane fotografo freelance. Una guerra civile che era degenerata in una carestia diffusa. Man mano che iniziavo a comprendere le complesse ragioni di ciò a cui assistevo, mi disturbava sempre di più la richiesta di semplificazione e sensazionalismo da parte dei media. In definitiva, cominciavo ad avere la sensazione assillante che quelle immagini potessero rafforzare uno stereotipo negativo dell’Africa nel suo complesso.
Così, nel corso degli anni, ho iniziato a riconsiderare il mio approccio, concentrandomi sui problemi della cultura occidentale e guardando alle questioni più vicine a noi. Questo ha portato la mia attenzione sugli Stati Uniti. Avevo visto armi fornite dagli Stati Uniti in tutti i conflitti che avevo documentato. Ho deciso quindi di occuparmi della ‘guerra’ interna americana, di cui nessuno parlava all’epoca, e del fatto che ogni anno negli Stati Uniti 30.000 persone vengono uccise con armi da fuoco. Questo progetto triennale sulla storia d’amore mortale dell’America con le armi da fuoco è diventato Gun Nation, il mio primo libro. Ho sviluppato un rapporto di amore-odio con l’America. Mi affascinava vedere cosa succede quando una cultura abbraccia il capitalismo moderno e sfrenato. Nel tempo vi ho realizzato molti progetti, ma di recente, con l’avvento di Trump, ho avuto la sensazione che non ci fosse più nulla da dire: tutto ciò che è grottesco e incredibile è stato messo a nudo. È come se non ci fossero più segreti oscuri da svelare, sono tutti già in bella mostra.
In questo periodo la mia attenzione si è spostata sempre più sul Regno Unito. Ho prodotto un libro, A portrait of Hackney, che racconta il mio quartiere natale, Hackney, dove sono cresciuto e vivo tuttora. Hackney era uno dei quartieri più poveri di Londra, ma è diventato molto trendy, l’epicentro della vita hipster londinese. Mi sono interessato maggiormente alle disuguaglianze e a come le comunità vengono modificate dalla gentrificazione. Dopo il libro, ho realizzato un documentario su un’unica strada di Hackney, The Street, girato nell’arco di quattro anni durante un periodo di intensi cambiamenti.
Gun Nation, vincitore di molti premi tra cui anche il World Press Photo, nel 1998, nella sezione Daily Life, è anche un documentario. Come è stato rendere un progetto così connotato fotograficamente con un altro medium? Cosa hai approfondito di più e cosa è cambiato?
Il film Gun Nation è stato realizzato nel 2016, diciotto anni dopo l’omonimo libro. In questi diciotto anni mezzo milione di americani sono stati uccisi da armi da fuoco negli Stati Uniti. Viaggiando attraverso gli Stati ancora provati dalle recenti sparatorie nelle scuole, per produrre il film, ho rintracciato i proprietari di armi che avevo incontrato e fotografato negli anni precedenti. Volevo capire perché, nonostante l’enorme numero di morti, negli Stati Uniti c’è una resistenza così feroce anche a leggi moderate sul controllo delle armi.
Le persone che ho ripreso e intervistato sono prevalentemente bianchi americani della classe media, che producono, vendono e acquistano armi in gran numero, alimentando l’insaziabile appetito del Paese per le armi da fuoco. Fare un film è stato fantastico perché ho potuto dialogare di più con i soggetti. Tornando con una videocamera, questa volta ho avuto un approccio più diretto e polemico con loro. Il cinema è un mezzo molto soddisfacente, che può davvero completare la fotografia e ampliare le possibilità di raccontare storie.
Il progetto Leisure World racconta di una realtà abitativa comunitaria molto particolare, una residenza per anziani completamente autosufficiente situata in California. Ci parli di come è nato e di come è evoluto il lavoro?
Leisure World è la prima città statunitense esclusivamente per anziani. Una comunità autogestita di quattro miglia quadrate, circondata da un recinto di filo spinato, dove l’età media è di settantasette anni. Leisure World conta diciottomila residenti, cinque piscine, campi da golf, palestre e una propria stazione televisiva. C’è anche una squadra di nuoto sincronizzato, “The Aquadettes”, il cui membro più anziano ha ottantotto anni. Il 42% dei residenti di Leisure World ha più di ottant’anni e le donne superano gli uomini di due a uno (le donne vivono in media più a lungo degli uomini).
Avevo letto del luogo e volevo semplicemente visitarlo. È stata una di quelle esperienze fotografiche semplici e gioiose, in cui tutto è molto visivo e la luce invoglia a scattare. Mi affascinava, era un paradiso o un inferno? Non riesco ancora a decidere.
Non so perché, ma mi ricorda un po’ Pictures from Home di Larry Sultan. Sei d’accordo?
Sì, credo che tu abbia ragione. Lo prendo come un complimento, perché le immagini di Larry Sultan sono fantastiche e molto suggestive. Effettivamente ci sono delle somiglianze visive nei soggetti.
Per il progetto Love me, che ritrae uno spaccato globale sul concetto di “bellezza” e di “giovinezza”, hai approfondito questo focus in diciassette Paesi differenti. Da questa tua ricerca hai desunto un’idea univoca e omologata di “bellezza” e “giovinezza” o ogni Paese mantiene la propria unicità?
L’intero progetto riguarda il modo in cui un ideale di bellezza occidentale molto specifico è stato esportato in tutto il mondo come un rozzo marchio universale. Questo ideale di bellezza richiede capelli biondi e lisci, occhi azzurri, corpo snello e giovinezza. Le culture di tutto il mondo sono state influenzate e ai consumatori è stato fatto il lavaggio del cervello per cercare di conformarsi a questo modello. La forza trainante è il consumismo: l’industria della bellezza è un business multimiliardario. Se si riesce a vendere l’idea di un ‘look’ da seguire rigorosamente, allora si possono vendere alle persone i prodotti e i servizi per aiutarle a raggiungere lo scopo. Ciò può significare lisciare e schiarire i capelli, ingrandire il seno, rimuovere i peli dal corpo, schiarire la pelle, ridurre le dimensioni del corpo attraverso diete e interventi chirurgici e cercare, contro ogni previsione, di mantenere un aspetto giovane.
In cinque anni ho viaggiato in diciotto Paesi diversi. In Iran ho assistito a un boom dell’industria dei ritocchi al naso: gli iraniani vogliono nasi piccoli, in stile americano. In Cina le persone si sottopongono a interventi agli occhi per apparire più occidentali. In Africa e in Asia va di moda lo schiarimento della pelle. In Brasile, la chirurgia plastica è così popolare che il chirurgo estetico di maggior successo è famoso quanto un calciatore. I concorsi di bellezza si svolgono persino nelle carceri. In tutto il mondo le differenze culturali e l’unicità vengono cancellate. È necessario il conformismo. È una forma di globalizzazione.
A cosa stai lavorando attualmente?
Sto terminando un nuovo grande progetto, al quale ho lavorato negli ultimi sei anni, The Anthropocene Illusion. È stato esposto al festival Cortona On the Move quest’estate. Il progetto analizza come, mentre distruggiamo il mondo naturale che ci circonda, noi esseri umani siamo diventati padroni di un’esperienza artificiale della natura. Il progetto prevede la realizzazione di un libro e di una mostra.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Zed Nelson sono disponibili sul suo sito zednelson.com.