Venezia
Dal 10 ottobre al 9 novembre 2025
We Need Colours to Survive This World è una dichiarazione di intenti, per sopravvivere e trovare la giusta strada verso un mondo, forse, un po’ migliore. È anche il titolo della mostra di Monica Silva, in programma dal 10 ottobre al 9 novembre 2025 alla Fondazione Giorgio e Armanda Marchesani di Venezia.
All’inizio della sua carriera la fotografa italo-brasiliana ha fatto della ritrattistica la sua firma stilistica e poi, con il tempo, la sua produzione si è estesa al genere della staged photography e alla creazione di opere che sembrano dei veri e propri tableaux vivants.
L’autrice affronta temi che riguardano il contemporaneo e la società di cui facciamo parte, e lo fa usando il colore e il richiamo all’arte antica come filtri che possano fare la differenza. Abbiamo intervistato Monica Silva per farci raccontare la sua progettualità e la mostra che esporrà a Venezia.
Sei una fervente sostenitrice del colore, non solo per una questione estetica o emotiva, ma anche sociale, vero?
Il colore per me è vita, è energia. È la mia guida creativa e spirituale. Basta osservare la natura per capirne l’importanza: ci insegna a sopravvivere, a respirare, a ritrovare il nostro centro. Viviamo un tempo grigio, spesso intriso di depressione, aggressività, disconnessione. Le persone hanno dimenticato quanto il colore possa rigenerare. Ed è lì fuori, gratuito, alla portata di tutti. Per me, il colore è quasi una religione. Ogni mia foto nasce da una palette precisa, pensata per trasmettere messaggi, spesso subliminali, ma sempre presenti. Il mio scopo non è estetico: è portare pace, gioia, coscienza, accendere emozioni. Le mie fotografie sono attraversate da parole invisibili scritte nei raggi di luce, per chi ha voglia di fermarsi e ascoltare.
Uno dei tuoi primi progetti famosi è My Hidden Ego, una serie di ritratti in bianco e nero. Cosa è cambiato da allora?
In realtà, le immagini di lancio erano a colori: la mostra L’Io Dentro Me, nel 2011 a Palazzo Pichi Sforza, presentava scatti di grande formato e installazioni interattive a colori. Quelle in bianco e nero che si vedono oggi sul sito sono una variante successiva. Negli anni il progetto è cresciuto, ha superato i confini e si è evoluto in My Hidden Ego Project, un percorso interdisciplinare che unisce fotografia, performance, oggetti, abiti, riflessione psicologica e spirituale. A dicembre lanceremo un cofanetto speciale di autoanalisi quotidiana, con esercizi fotografici, letture immersive, pratiche creative. È un progetto che si rivolge a tutti, senza distinzioni, perché in ognuno di noi convivono parti maschili e femminili, che vanno ascoltate per vivere meglio, in equilibrio e verità.
Il ritratto è sempre stato centrale nella tua produzione. Parli di “ritratti psicologici”. Perché ti affascinano così tanto?
Ho coniato l’espressione ‘psicologia nel ritratto’ nel 2005, dopo una lunga serie di autoritratti accompagnati da diari. Un viaggio profondo dentro me stessa che ha cambiato tutto. Fotografare non era più solo un gesto tecnico, ma una forma di autoanalisi. E ho capito che lo facevo da sempre anche con gli altri. Per me il ritratto è un incontro autentico, spesso silenzioso, tra due persone che abbassano le difese. È un dialogo sottile, fatto di sguardi, vibrazioni, rispetto. Non è mai solo un’immagine: è la somma delle nostre due anime in quel preciso momento. Mi affascina perché ogni volto è un mistero, un universo di storie e possibilità da ascoltare e tradurre in immagine.
Il richiamo all’arte antica – nei colori, nelle pose, nell’iconografia – che apporto dà alla tua fotografia?
Io vengo da un Paese giovane, con grande umanità ma poca storia artistica. Arrivare in Europa è stato come entrare in un parco giochi visivo: ogni affresco, chiesa, museo era una rivelazione. Per anni ho immagazzinato bellezza. Poi, nel 2008, quando la galleria Mazzoleni mi chiese dei ritratti di celebrità, ho deciso di fare un progetto tutto mio: Life Above All, ispirato all’Antologia di Spoon River. Da lì è esplosa la mia voce artistica. La vera svolta è arrivata con Lux et Filum – Una visione contemporanea di Caravaggio, un progetto audace che ha catturato l’attenzione di pubblico e critica. L’arte antica è una fonte inesauribile. Mi permette di creare ponti tra epoche, di parlare ai giovani con un linguaggio che capiscono – la fotografia – e portarli verso qualcosa di più alto, più vero, più umano.
Art Beyond Imagination (2022), esposto in mostra, rivela come il tuo pensiero si sia radicalizzato: oggi la tua idea di immagine va oltre la fotografia. Cosa hai tolto e cosa hai aggiunto rispetto al passato?
Art Beyond Imagination è stato un progetto chiave per la trasformazione del mio lavoro. Da lì in poi ho deciso di superare i limiti della fotografia classica, aprendo la strada a una nuova modalità espressiva più articolata.
La prima mostra si è tenuta presso la Galleria Longari Arte, nello storico Palazzo Cicogna a Milano, ed è nata come una rilettura contemporanea di capolavori dell’arte antica.
Ho lavorato su un angelo ligneo senese del ’300, che con il tempo aveva perso i suoi tratti distintivi – ali, giglio, aureola – lasciando solo una presenza enigmatica, essenziale.
Insieme all’artista multidisciplinare e direttore creativo Valerio Fausti, abbiamo realizzato un’installazione in cui le sue ali scultoree – forgiate in acciaio e resina traslucida, ispirate alle vetrate gotiche – si integravano con l’opera originale. La mia interpretazione fotografica è stata un omaggio a Man Ray: ho avvolto l’angelo in tulle dorato e lo ho illuminato con luci LED RGB, i tre colori primari della luce. Quando combinati, questi colori generano il bianco, che per me rappresenta completezza, rinascita, visione. Così è nata la serie Angel Gabriel’s White Light, composta da tre immagini.
Abbiamo utilizzato Art Beyond Imagination come punto di partenza per spingerci oltre i confini dell’immagine, per mostrare in modo concreto come vogliamo sviluppare i nostri progetti futuri.
Da questa volontà nasce il lavoro che oggi portiamo avanti con Factory of Art, un hub creativo in cui fotografia, arte, installazione, oggetti e sperimentazione si incontrano per dare forma a un linguaggio visivo multidisciplinare e in continua evoluzione.
Quanto le tue immagini sono frutto del lavoro prima dello scatto, e quanto della post-produzione?
Il 90% del mio lavoro avviene prima dello scatto. Passiamo settimane, a volte mesi, progettando tutto: palette, costumi, location, luci, oggetti. Quando arrivo sul set, tutto è già lì. La postproduzione serve solo per rifinire piccoli dettagli: pelle, luci, cromie. Non creo nulla in digitale che non sia stato prima costruito nella realtà. Non mi interessa la manipolazione estetica, ma la potenza del vero. Il cuore è il rapporto col soggetto. Se non c’è scambio, anche il miglior set resta vuoto. È la persona che rende viva la fotografia.
Da cosa trai ispirazione per i tuoi tableaux vivants contemporanei?
L’arte antica è il mio pane quotidiano. Mi nutre, mi ricorda che non siamo eterni, ma che l’arte lo è. Scatto con questa consapevolezza: un giorno io non ci sarò più, ma le mie immagini resteranno. Per questo sento una responsabilità forte: raccontare il nostro tempo con uno sguardo elevato, libero da banalità e cinismo. Credo nella potenza immaginativa dell’essere umano. Voglio lasciare tracce che stimolino coscienza, emozione, empatia. Tracce che accendano la mente, ma anche il cuore.
Nei tuoi ritratti di attori e celebrità, come gestisci il rapporto tra la loro iconicità e la tua visione?
Cerco sempre di spogliare il personaggio dalla maschera. Mi interessa l’essere umano, non l’icona. Con Paolo Sorrentino ho parlato a lungo mentre scriveva La Grande Bellezza, a casa sua. Toni Servillo l’ho ritratto sul palco vuoto del Teatro Argentina, in un’atmosfera sospesa. Fiona May è venuta nel mio studio, e da subito si è creata una complicità forte, intima, profonda. Ne è uscita un’immagine che racconta tutta la sua energia felina e la sua forza gentile. In ognuno cerco la verità. La bellezza viene dopo, come conseguenza.
Monica Silva. We Need Colours to Survive This World
- A cura di Matilde Nuzzo e Robert C. Phillips
- Fondazione Giorgio e Armanda Marchesani, Dorsoduro 2525 – Venezia
- dal 10 ottobre al 9 novembre 2025
- mar-ven 14-19/sab-dom 11-19. Lunedì chiuso
- ingrsso gratuito
- fondazionemarchesani.org
Le fiabe rivisitate di Dina Goldstein: staged photography contro gli stereotipi femminili
dall’11 al 14 aprile 2024
Gregory Crewdson. Eveningside: il maestro della staged photography in mostra a Torino
dal 12 ottobre 2022 al 22...
Katerina Sysova e la sua bizzarra staged photography: quando umorismo strategico e tradizione pittorica rivelano significati profondi
La fotografia di Katerina Sysova mette...
Valentina Vannicola. Staged photography corale
I progetti fotografici di Valentina Vannicola...
Yoshiki Hase, ovvero quando la fantasia della staged photography cattura la vera essenza di un villaggio e della sua gente
Yoshiki Hase mette in scena una...