Quello che Stephan Lucka racconta attraverso le immagini è un sentimento non esprimibile in modo diverso, almeno per lui. Sicuramente non tramite le parole. Cosa vuol dire essere scout, cosa vuol dire quel sentimento di condivisione che raccoglie tutti gli scout del mondo in un abbraccio stretto e complice. Quel senso di comunità, di famiglia in un certo senso. Questo ci racconta Stephan in Das Gefühl, das nur wir kennen (La sensazione che solo noi conosciamo). L’abbiamo intervistato.
Il tuo progetto di documentazione sull’identità scout come nasce? Quanto della tua storia personale c’è?
Questo progetto attinge a un senso di nostalgia, poiché, nella mia vita, sono stato membro giovane e attivo degli scout. Lo stimolo della mia ricerca era quindi, in qualche modo, di natura autobiografica. In un senso più ampio, l’impulso per iniziare Das Gefühl, das nur wir kennen (La sensazione che solo noi conosciamo) mi è stato dato dalla voglia di esplorare la mia identità, in un viaggio dentro me stesso.
Penso che la particolarità e l’importanza di certi momenti della propria vita si capiscano solo a posteriori. Così è stato per la mia esperienza negli scout, e Das Gefühl, das nur wir kennen mi ha dato la possibilità di ritornare a pensarci come parte importante della mia biografia, e da lì ho cercato di capire chi sono. Questa è stata la motivazione iniziale.
Mentre il progetto andava avanti, ne ho approfondito le complessità e vari aspetti, inclusi vari meta-livelli. In generale, ho sviluppato il progetto con la motivazione di acquisire una comprensione più profonda di tutta la mia vita.
Il progetto si intitola Das Gefühl, das nur wir kennen. Cos’è questa sensazione che solo gli scout conoscono? Come l’hai rappresentata?
Ricevo spesso questa domanda e credo che non abbia una risposta definita. Sarebbe come chiedere: ‘Cos’è l’amore?’, oppure ‘Come spiegheresti il concetto di amore?’. Non c’è una risposta univoca, ma già il fatto di di porsi tali domande, o di sentirsele porre da qualcuno è un inizio. Non sapendo rispondere esaustivamente a quesiti di questo tipo con le parole, cerco di farlo attraverso la fotografia. È la soluzione più semplice per me.
Per iniziare il progetto ho chiesto a molti scout com’è essere uno scout o come ci si sente ad esserlo e molti, se non tutti, mi hanno risposto raccontadomi di qualcosa di indescrivibile che li accomuna, abbracciandoli come se fossero parte di una grande famiglia. Quando, però, cercavo di farmi spiegare meglio questa sensazione nessuno sapeva descriverla nel dettaglio, sebbene tutti fossero sicuri che ogni scout sapesse di cosa si tratta. A quel punto, non sapendo a mia volta parlarne, ho cercato di rispondere a livello visivo.
Das Gefühl, das nur wir kennen non è solo una semplice documentazione che intende trasmettere cosa implica la vita di uno scout, ma appare anche come un’indagine su una più complessa estetica che fa capo al mondo scout…
Naturalmente, fin dall’inizio l’indagine su questa estetica ha avuto un fascino molto importante per me. Ho cercato di trasmettere non tanto l’estetica superficiale dell’essere scout, ma quella più complessa, più profonda, quella che apre una finestra sulla rappresentazione del concetto di “fiducia”, “amicizia” e “appartenenza”, ma anche del senso di “comunità” e gli aspetti ad essa associati. Questa comunità offre ai giovani lo spazio per crescere e sviluppare un senso di sé che li aiuta a diventare liberi. È proprio questa, probabilmente, la descrizione della sensazione citata nel titolo del progetto. Può sembrare paradossale perché molte persone associano l’estetica scout al rigore, alle regole e alle abitudini, in parte è vero e in parte no, a seconda di come la si analizza. Ciò che è certo è che c’è anche molto altro.
Il tuo sguardo sembra particolarmente partecipe alla realtà che hai fotografato. Come il tuo fotografare si è relazionato con i ragazzi?
In termini di sguardo, cerco sempre di immergermi completamente nel mondo dei miei protagonisti perché credo di dover fornire loro il miglior spazio narrativo possibile per raccontare e sviluppare le loro storie. Anche se sono consapevole che i miei progetti hanno sempre qualcosa di molto personale, che riguarda la mia esperienza diretta, lo scenario che rappresento è strettamente collegato ai soggetti delle mie immagini. Ovviamente la fotografia, la mia visione della fotografia, non coincide con la semplice documentazione dei fatti: come dicevo, c’è sempre una parte di me nei miei lavori e sarebbe ingenuo pensare il contrario.
Se pensi al tuo progetto, chi sono i tuoi modelli fotografici? E come si manifestano in esso?
Per questo progetto non c’è stato nessuno che mi abbia particolarmente ispirato. Prendendo come riferimento la mia carriera e il mio pensiero creativo, invece, sono stato influenzato da molti altri fotografi che hanno saputo modellare la mia prospettiva e il mio sguardo tramite la visione del loro lavoro. Ad esempio, sono sempre stato affascinato da Larry Towell, in particolare dalla sua documentazione dei mennoniti, dal modo in cui si è immerso nel loro mondo e gradualmente ne è diventato parte. È stato in grado di sviluppare una prospettiva intima e raccontare la loro storia in un modo unico. Quello che ho davvero ammirato della sua fotografia e della sua persona è che si è schierato, senza nemmeno tentare di rimanere imparziale, o di aderire all’etica del giornalismo che richiede il mantenimento di un punto di vista neutrale. Si è chiaramente allineato con i suoi soggetti. Forse anche questo ha avuto un’influenza inconscia su di me e sul mio lavoro.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Ola Billmont sono disponibili sul sito ufficiale del fotografo.