Paola Agosti è una fotografa eclettica, famosa per aver raccontato le manifestazioni femministe e operaie degli anni Settanta, per i suoi ritratti agli intellettuali del Novecento, per i reportage sociali, oltre che per la sua narrazione per immagini della rivoluzione portoghese del 1974, la cosiddetta “rivoluzione dei garofani” che conferì al Portogallo la libertà dopo un periodo di dittatura durato quarant’anni. Al Mattatoio di Roma sono in mostra alcune immagini di Agosti che raccontano Lisbona nei giorni immediatamente successivi alla liberazione del 25 aprile 1974.
Le fotografie sono esposte – insieme a quelle di Alfredo Cunha e Carlos Gil, Fausto Giaccone, Augusta Conchiglia, Sebastião Salgado, Guy Le Querrec, Ingeborg Lippman e Peter Collismostra – in una collettiva intitolata L’alba che aspettavo. Portogallo, 25 aprile 1974. Immagini di una rivoluzione.
La mostra, a cura di Alessandra Mauro, è incentrata sulle vicende di quel 25 aprile 1974 e su quello che ne conseguì e racconta la forza dirompente della libertà e della speranza. Abbiamo fatto due chiacchiere con Paola Agosti che ci ha parlato della sua fotografia e di come affrontò la cronistoria di quei giorni portoghesi.
Come si è avvicinata, originariamente, alla fotografia?
È stato un caso. Mi trasferii a Roma nel 1968, con un profondo interesse per la grafica. Venni, quindi, assunta come apprendista in uno studio e iniziai facendo pratica in camera oscura. Lì conobbi Augusta Conchiglia, che già da tempo lavorava come fotografa professionista; era stata fotografa di scena del Piccolo Teatro a Milano. Decidemmo di creare un nostro studio e procacciarci insieme dei commissionati nei teatri romani. Poi Augusta smise di fotografare e si dedicò al giornalismo scritto e io continuai da sola.
L’intento era soprattutto quello di instaurare una rete di collaborazioni con i giornali, poi c’era sicuramente la questione della militanza politica, ma a dire il vero, in me, negli anni Settanta, non c’era una consapevolezza profonda di questo concetto; semplicemente era istintivo partecipare al momento storico che si stava vivendo, e io lo feci con la macchina fotografica in mano. Iniziai, poi, a seguire costantemente l’evoluzione del movimento femminista dalla metà degli anni Settanta, perché l’editore Savelli mi commissionò, nel 1976, quello che poi sarebbe diventato il mio primo libro Riprendiamoci la vita: immagini del movimento delle donne, con testi di Silvia Bordini, Rosalba Spagnoletti e Annalisa Usai.
Come dimostra l’esposizione al Mattatoio, dopo il 25 aprile 1974 molti fotografi accorsero in Portogallo per testimoniare la rivoluzione dei garofani, e le conseguenze di un’importante apertura. Cosa spinse lei ad andare a raccontare quello che stava succedendo?
Partii per Lisbona con Saverio Tutino, un giornalista con cui collaboravo spesso e a cui ero legata sentimentalmente. Mi sentivo investita da una forte partecipazione per la liberazione del 25 aprile del 1974 in Portogallo, una vicinanza politica ed emotiva. Il riverbero con il nostro 25 aprile era troppo forte, una data molto importante per l’Italia, e così partimmo qualche giorno dopo per Lisbona.
E cosa trovò a Lisbona al suo arrivo?
C’era un clima bellissimo, un clima di un Paese che ritrovava la propria libertà, dopo quarantott’anni di fascismo. Era un’esplosione di gioia collettiva. Tantissimi giovani vivevano per la prima volta la possibilità di esprimere la propria voce e il proprio entusiasmo. Guardando e vivendo quella situazione mi venne in mente la generazione dei miei genitori, che, similmente ai giovani portoghesi, era nata sotto il fascismo e altro non aveva conosciuto fino al nostro 25 aprile 1945. Ma la chiara sensazione di partecipare a qualcosa che stava entrando nella Storia l’ho avvertita il primo maggio, il giorno della Festa dei Lavoratori, quando la popolazione, dopo anni di dittatura, invase le strade della città con un’ondata di rinnovata libertà e speranza. Era stupenda la sensazione di poter stare in mezzo a tale immensa felicità.
Già agli inizi degli anni Settanta, in Italia, aveva fotografato le lotte operaie, dando voce alla spinta propulsiva delle masse. Con che approccio fotografava i grandi eventi collettivi, come possono essere le manifestazioni o il giorno della liberazione di un Paese?
Sicuramente con uno sguardo partecipe, che stava dalla parte degli oppressi. Per me era una gioia raccontare la rivalsa sulle ingiustizie e, nel caso specifico del Portogallo, sulla dittatura. Come dicevo prima, andando a Lisbona nell’aprile del 1974, sentivo una profonda connessione con la storia del nostro Paese. Io, però, in quel momento storico, non riflettevo su come dovessi cogliere la forza delle masse, fotografavo e basta, la cosa importante era la testimonianza, essere lì per documentare il momento.
Però, nel suo raccontare quei giorni, si focalizzò non solo sulla narrazione delle masse, ma anche su ritratti alla popolazione e anche agli attori del colpo di Stato, come il Generale Spinola, che divenne prima Presidente della Giunta di Salvezza Nazionale e il 15 maggio 1974 fu nominato Presidente della Repubblica. Ci racconta quell’immagine?
Ero arrivata qualche giorno dopo il 25 aprile e il Generale non appariva più in pubblico. Forte della mia ‘subalpina tenacia’, sono riuscita ad avere l’indirizzo del suo domicilio, mi sono appostata sotto un diluvio universale che scrosciava per le strade di Lisbona, finché lui uscì, finalmente, dal portone del suo edificio e io riuscii a immortalarlo.
Tra le immagini del suo lavoro sul Portogallo del 1974 lei fotografò i “pieni” delle masse in festa, ma anche i “vuoti” che il processo di rinnovamento avrebbe poi sanato. Ne è un esempio lo scatto all’interno della sede della PIDE, la polizia politica di regime che cadde con la fine della dittatura…
Sì, in quel caso, la cosa che mi interessava testimoniare era l’intenzionalità da parte della polizia politica di bruciare, nel caminetto, la documentazione che avevano in archivio, i fascicoli segreti, tutto ciò che non volevano che fosse rivelato. In quella sede, per oltre quarant’anni, la polizia fascista portoghese aveva compiuto opera di controllo e tortura e tutto era stato scrupolosamente registrato. Ovviamente con il colpo di Stato che invertì le sorti del Paese era molto importante eliminare quelle prove.
Il caos che viene riprodotto dalla mia foto, la cenere nel camino, le sedie e i tavoli disposti confusamente, i quadri caduti per terra, erano il perfetto ritratto del fermento e della confusione del momento, del vecchio che faceva posto al nuovo. In quel luogo c’era un grande vuoto, politico e ideologico, e io l’ho voluto fotografare.
Nelle fotografie della rivoluzione dei garofani del 1974 già si intravede la sua attenzione per il mondo femminile, che poi sfocerà nei suoi reportage della metà degli anni Settanta del movimento femminista, dei cortei e delle manifestazioni…
È vero, nel corso della mia carriera di fotografa sono sempre stata attenta all’universo femminile. A tal proposito cito spesso una considerazione di mia madre, fine traduttrice letteraria, che si rese conto solo alla fine della sua vita di aver tradotto quasi esclusivamente autrici donne. Il suo lavoro come traduttrice di molte scrittrici è stato un lavoro apprezzato da tanti, anche se lei non ne aveva consapevolezza mentre lo stava facendo. Lo stesso vale per me e la mia fotografia che ha raccontato le donne e il loro mondo. D’altro canto, comunque, la sensibilità femminile è una componente che ho respirato profondamente in famiglia e da lì probabilmente è partito il mio interesse a raccontare quella dimensione.
Il libro Itinerari. Il lungo viaggio di una fotografa, pubblicato da Postcart nel 2023, è un percorso lungo tutta la sua carriera. A posteriori, come definirebbe la sua fotografia?
Io appartengo a quella generazione di fotografi che ha scelto la fotografia per testimoniare e documentare la realtà. Facevo il mio lavoro, semplicemente, come tutti i miei colleghi, senza pensare che le mie immagini stessero raccontando la Storia, ma effettivamente, guardandole a posteriori, in alcuni casi questo è successo.
Ad un certo punto, però, smette di fotografare e mette a frutto la sua esperienza di fotografa come curatrice di mostre e cataloghi. Perché?
L’essere un fotografo implicava delle dinamiche che non mi appartenevano più. Con il passare del tempo, era diventato tutto difficile: farsi commissionare i lavori, farsi pagare; il mondo dell’editoria stava subendo una progressiva trasformazione. Così, da vent’anni, mi concentro sul mio archivio e sul lavoro di curatrice di mostre e libri, scegliendo un approccio storico verso la ricerca fotografica. Ho iniziato con una mostra e un libro dedicato alla figura di un mio prozio, Francesco Agosti – lo sguardo discreto di un fotografo piemontese del primo Novecento, pubblicato nel 1998 da Peliti Associati, che ho curato insieme a Marina Miraglia, Charles-Henri Favrod e Maria Francesca Bonetti. A questo volume ne sono seguiti altri, tra cui, mi piace ricordare, Bobbio e il suo mondo curato con Marco Revelli.
Come la sua esperienza di fotografa si è inserita in quella di curatrice?
Mi ha molto aiutato la consuetudine con la ricerca di immagini, ma anche il desiderio di mostrare fotografie valide per la loro bellezza. Sono rimasta, per entrambi i ruoli, un’inguaribile esteta.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Paola Agosti sono disponibili sul suo sito paolaagosti.com.
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