Le tartarughe marine sono un simbolo rappresentativo delle specie marine in via di estinzione, a cui Paola Lai ha dedicato il suo progetto fotografico A Sea Turtle Odyssey. Avvicinatasi al CReS, Centro di Recupero del Sinis, in Sardegna – che ha la finalità di programmare e attuare le attività di recupero, soccorso, affidamento e gestione delle tartarughe – e ai suoi ricercatori e studiosi, Paola, già interessata alla tematica del rapporto tra uomo e natura e alle condizioni ambientali, ha prodotto A Sea Turtle Odyssey, seguendo da vicino il lavoro dei biologi e la storia delle tartarughe salvate in mare.
Con un linguaggio tra il reportage e sfumature decisamente più concettuali Paola ci offre uno spaccato delle condizioni in cui versa il Mar Mediterraneo e la fauna che in esso cerca di sopravvivere. Abbiamo intervistato l’autrice per farci raccontare la sua esperienza e anche come la fotografia possa contribuire a migliorare la situazione.
Come ti sei avvicinata alla fotografia?
Credo che il mio rapporto con la fotografia sia iniziato quando ero bambina. A settembre partivamo in vacanza ‘on the road’ con la famiglia, visitando ogni anno un Paese diverso. Mio padre documentava tutti questi viaggi con la sua macchina fotografica, mentre il resto della famiglia posava per lui. Trovavo piuttosto noioso posare e ciò che davvero mi incuriosiva era scattare, operazione che il più delle volte non mi era concessa. Anche da quel desiderio di bambina, spesso non esaudito, penso sia dipeso il mio essere diventata fotografa.
Nel frattempo, crescevo guardando riviste come National Geographic e Airone. Ricordo ancora vividamente le fotografie di Jodi Cobb, una delle poche donne a lavorare per il National Geographic in quel periodo. Le sue immagini hanno avuto un impatto molto forte su di me, facendomi immaginare da adulta a fare il suo stesso lavoro. La mia passione per la fotografia è nata in questo periodo ed è poi andata avanti attraverso gli studi universitari, con un Bachelor’s Degree of Art in Photography all’Universitá di Lancaster, in Inghilterra, un master in fotogiornalismo all’Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e il corso di fotografia documentaristica del Centro de Fotografia Documental, sempre a Barcellona.
Come nasce il progetto A Sea Turtle Odyssey?
Durante i miei studi all’università ho iniziato ad approfondire il mio interesse verso la natura e gli animali con una ricerca che indagava l’impatto umano sul pianeta e le molteplici sfaccettature della nostra relazione con l’ambiente. Sappiamo da decenni che, con le nostre azioni, stiamo cambiando la natura e la Terra in modo drastico, ma ancora non stiamo facendo quasi niente rispetto a quello che avremmo dovuto fare già da tempo.
Credo fermamente che sia cruciale passare a un nuovo tipo di coscienza, fondata su una maggiore consapevolezza etica, sulla collaborazione, su una connessione e un rispetto rinnovato per il pianeta in tutto il suo insieme. Reputo fondamentale la conoscenza data dalla ricerca scientifica, dai dati e dai fatti concreti. In questo processo, la fotografia documentaristica può diventare uno strumento molto potente, che consente di comunicare e osservare, permettendo alle persone di acquisire rapidamente conoscenza e, nel migliore dei casi, anche consapevolezza.
Nel tuo progetto la figura della tartaruga è simbolo emblematico delle specie marine a rischio estinzione. Perché?
Penso che le condizioni di vita di una tartaruga rappresentino una specie di specchio delle pressioni dell’attività umana sugli oceani, un’attività che contribuisce al cambiamento climatico e al conseguente aumento delle temperature, oltre a essere fonte di inquinamento da plastiche e micro-plastiche e a provocare squilibri ambientali e degrado degli habitat attraverso la pesca intensiva e accidentale o il bracconaggio.
Per raggiungere l’età adulta, una tartaruga affronta continue lotte e difficoltà: deve riuscire a lasciare il nido e raggiungere il mare, evitare di essere predata ed essere abbastanza fortunata da non sopperire alle attività umane di cui sopra. Da una covata che va dalle settanta alle duecento uova, solo pochissimi esemplari sopravvivono e si riproducono. È una specie estremamente resiliente, che vive sulla Terra da oltre centodieci milioni di anni e da diversi decenni è minacciata dall’uomo, che abita questo pianeta da tempi decisamente più recenti. Per questo motivo ho deciso di dedicare a questo animale un intero progetto.
Quanto influisce il tuo coinvolgimento ideologico nella resa fotografica del progetto?
Moltissimo. Dall’ideologia nasce l’azione militante, la lotta informativa, divulgativa e di sensibilizzazione, che la fotografia esprime al pari di tante altre forme d’arte. Sappiamo bene che diverse fotografie sono riuscite a cambiare l’opinione pubblica, influenzando anche decisioni politiche che hanno condizionato il corso della storia.
Dietro ai progetti che porto avanti c’è sempre l’intenzione di sensibilizzare il pubblico. Il coinvolgimento ideologico passa anche attraverso la ricerca e lo studio del tema che si vuol raccontare e l’approfondimento delle cause e delle conseguenze, comprese quelle meno evidenti, quelle che non ci si aspetta e che possono essere connesse ad altre realtà, come in un effetto domino.
Per fare un esempio sull’importanza dell’approfondimento di un tema e della realtà in cui esso si innesta, vorrei fare riferimento a un progetto che ho prodotto qualche anno fa. Si tratta di un lavoro sulla mattanza, la pesca al tonno rosso fatta artigianalmente e solo stagionalmente in Sicilia. Personalmente opterei per l’abolizione di tutte quelle pratiche che implicano l’uccisione o il maltrattamento di qualsiasi essere vivente. Non posso però non considerare il fatto che la mattanza sia fonte di reddito per diverse decine di famiglie e giovani in una delle province più povere d’Europa e che, quindi, la sua abolizione comporterebbe la perdita del sostentamento per vari nuclei familiari, in un territorio in cui reinventarsi lavorativamente risulterebbe molto più difficile che in altri luoghi. Inoltre, se il tonno fosse pescato solamente con il metodo della mattanza, seppur cruento, sarebbe più sostenibile della pesca intensiva.
A Sea Turtle Odyssey alterna immagini più chiaramente reportagistiche a degli still life dei materiali che vengono trovati nelle pance delle tartarughe. Che apporto volevi dare alla narrazione con questo dialogo visivo?
L’alternanza ha due funzioni. Da un lato marca il ritmo narrativo tra l’azione delle foto in puro stile reportagistico e le pause di riflessione date dalle foto still life. Dall’altro raccorda i casi specifici trattati dal centro di recupero CReS, che ho seguito, e l’evocazione delle conseguenze dell’impatto umano sulla specie a un livello più universale e più concettuale.
C’è la storia specifica di qualche tartaruga che vuoi condividere con noi?
Ogni tartaruga è speciale, qualcuna ha una storia più particolare di un’altra, ma con Leonessa ho avuto modo di condividere un momento eccezionale, perché dopo essere stata curata dai biologi del CReS per quasi un anno, l’ho accompagnata e seguita nel suo ritorno in mare, immergendomi con lei. È stata un’esperienza magica ritrovarci là insieme, estraniata nella sfera “spazio-atemporale” che si prova quando si sta sott’acqua, e vedere questa “vecchia signora” riconquistare la libertà e nuotare di nuovo in mare aperto. Ho provato un’emozione fortissima, la ricorderò sempre.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Paola Lai sono disponibili sul sito paolalai.net.
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