Matteo de Mayda, fotografo documentarista che ha fatto dell’indagine sociale sul territorio la sua missione, ci racconta del progetto a lungo termine "The first time" che parla di calcio e di contemporaneità.
"The first time, Qatar" è una tua puntuale documentazione dello stato del Qatar durante il recente mondiale di calcio del 2022, che va a inserirsi in una più complessa narrazione sul mondo “delle prime volte” in ambito calcistico. Ce ne parli?
Sì, The first time, Qatar fa parte di un progetto più esteso, ideato insieme a Cosimo Bizzarri, giornalista con cui lavoro spesso, nato nel 2018 come serie intitolata The first time. “Le prime volte” dei Paesi partecipanti alle manifestazioni calcistiche internazionali.
Nel 2018 siamo partiti, infatti, con un focus sull’Islanda, The first time, Iceland, perché partecipava per la prima volta ad un mondiale di calcio, nello specifico quello che si è tenuto in Russia. L’intento era quello di capire come un paese di 300.000 abitanti (più o meno la provincia di Bari), si fosse qualificato per il più prestigioso torneo internazionale.
Per il secondo capitolo siamo stati, invece, in Macedonia del Nord, nel 2020, The first time, North Macedonia, dove più che sul commento tecnico, ci siamo concentrati sull’occasione unica del paese di consolidare la propria identità nazionale all’estero, in vista di un possibile ingresso nell’Unione Europea, e riunire una popolazione ancora divisa da tensioni etniche sotto una sola bandiera.
Il mondiale del 2022, infine, si è svolto in Qatar, The first time, Qatar: la prima volta che la competizione veniva ospitata in un Paese del Golfo, in una nazione musulmana e inoltre la prima volta che la manifestazione veniva giocata d’inverno. Ogni capitolo della serie funziona a sé, ma “La prima volta” è un progetto a lungo termine volto a esplorare il calcio e il modo in cui esso plasma la cultura, la politica, l’identità e persino il cambiamento climatico, nelle nazioni che partecipano per la prima volta a un grande torneo internazionale.
Perché avete scelto il focus calcistico?
Personalmente il calcio è un interesse che appassiona sia me che Cosimo e poi ci sembrava una sorta di lingua universale. Rivelare il colore della tua maglia e la tifoseria di cui fai parte è espressione di identità e di appartenenza. Il calcio è una sorta di passepartout che ci aiuta nell’affrontare temi più ampi e complessi della società odierna.
Visivamente cosa congiunge questi tre capitoli che avete già prodotto?
Uno degli elementi di congiunzione visiva può essere l’architettura del luogo, che a mio avviso svela molto dell’identità di un paese. In Qatar, ad esempio, tutti i ritratti prodotti sono ritratti ambientati nell’architettura del posto. Edifici avveniristici e paradossali se contestualizzati nelle zone desertiche dove sono stati costruiti. Non volevamo focalizzarci semplicemente sull’elemento umano, ma anche e soprattutto sulla storia del luogo.
Come modalità di narrazione mi sono concentrato, poi, anche sul ritratto, dei tifosi o dei membri delle accademie di calcio, oltre alle immagini che amo definire “paesaggi calcistici” e cioè campi di calcio in contesti non comuni come i ghiacciai dell’Islanda, il deserto del Qatar, le zone di guerra della Macedonia del Nord. Il calcio vuole essere un tema “pop” per entrare in contatto con specifiche questioni che sono molto più profonde e complesse.
Parlavi di ritratto e anche di fotografia di architettura, ma anche il reportage sociale compare come modalità di narrazione, con l’intenzione di raccontare anche il contesto sociale: la tifoseria negli stadi ad esempio…
Io non mi considero un fotogiornalista, The first time non vuole essere un’indagine capillare sulle controversie di un paese. Le tematiche sono molte – dai diritti di genere, alle accademie di calcio giovanili o l’edificazione architettonica in contesti non antropizzati – per questo motivo le differenti modalità di narrazione possono aiutare ad avere una visione più completa e variegata.
Anche l’elemento della luce fa da collante alla serie. Una luce aperta, fredda, che uniforma la dimensione visiva del progetto…
C’è assolutamente una ricerca ponderata rispetto all’elemento della luce. Ad esempio in Qatar era molto complesso scattare perché lì il sole sorge alle cinque del mattino, alle sette e mezza il sole è già alto e il tramonto avviene verso le cinque di pomeriggio. Mi trovavo quindi a fotografare fino alle nove del mattino e riprendevo dalle tre di pomeriggio in poi, evitando le ore più calde, per una questione di coerenza narrativa, cercando una luce più morbida e diffusa, ma anche perché non sarei riuscito a scattare sotto il sole del deserto. Non volevo una resa troppo contrastata e volevo inoltre estremizzare i paradossi visivi del territorio con una luce che uniformasse il tutto.
"The first time" è una produzione molto connotata visivamente, filtrata dalla tematica calcistica per raccontare la storia di altri Paesi. Cosa congiunge questo lavoro ai tuoi progetti passati?
Ho cominciato tardi a fotografare, The first time è il primo vero progetto personale e a lungo termine a cui mi sono dedicato. Prima del 2018 avevo prodotto poco di significativo e questo progetto mi ha aiutato nella ricerca di una mia estetica, che sicuramente ho riportato, poi, nel resto dei lavori che ho realizzato. Se devo pensare a dei riferimenti relativi alla mia progettualità e al mio pensiero fotografico mi vengono in mente i primi Broomberg & Chanarin, Stefan Ruiz, Nicolò Degiorgis e Alessandro Imbriaco.
Avete in programma altri capitoli di "The first time"?
Questa estate ci saranno i mondiali femminili dove ci sarebbero delle altre “prime volte” da documentare, come la prima volta del Vietnam o quella dello Zambia, ma dipende molto anche dai costi e dai finanziamenti ed aiuti che riusciremo a trovare.
Tutte le informazioni sul lavoro di Matteo de Mayda sono nel sito ufficiale dell’autore: matteodemayda.com.