Dal 31 marzo fino al 25 giugno, presso le Sale Chagall del Castello di Casale Monferrato, il Middle MonFest rende omaggio alla brillante produzione di Vittoria Backhaus con una grande esposizione che ripercorre la sua carriera dagli esordi negli anni Settanta a oggi. Abbiamo intervistato l’autrice per farci raccontare il suo percorso fotografico.
Come e quando nasce la sua passione per la fotografia?
Quando ho iniziato, negli anni Sessanta, di libri di fotografia ce n’erano pochissimi, come anche le riviste, non c’erano dei grandi riferimenti, o almeno io non ne avevo molti. Ho preso in mano la macchina fotografica seguendo la mia curiosità verso il mondo e la necessità di mantenermi.
E cosa del mondo la incuriosiva tanto da stimolarla a fotografare?
Noi giovani eravamo molto investiti dalle questioni politiche e di conseguenza a me, come fotografa, interessava particolarmente il reportage sociale. Inoltre, data la mia profonda curiosità, mi piaceva molto conoscere la gente e il mestiere del fotografo mi permetteva di fare anche questo.
Era una delle frequentatrici del famoso bar Jamaica, luogo di incontro di molti fotografi che hanno lasciato il segno nella storia dell’arte e della fotografia…
Quando iniziai a frequentare il bar Jamaica andavo ancora all’Accademia di Belle Arti. Dondero, Mulas e molti altri erano gli amici che spesso mi prestavano le macchine fotografiche perché io non avevo molti soldi per comprarle.
Chi tra loro la influenzò maggiormente?
Nessuno in particolare. In quel periodo avevo sempre tra le mani il catalogo della grande mostra del 1955 al MoMA a cura di Edward Steichen The Family of Man. Non saprei però indicarti un fotografo specifico che mi abbia influenzato, io fotografavo e basta, per conoscere il mondo.
I suoi primi lavori come fotografa sono come fotoreporter, lavorava spesso per il settimanale Tempo illustrato, occupandosi soprattutto di tematiche sociali e politiche; poi decise di focalizzarsi sulla fotografia di moda e di design. È stato un passaggio motivato dall’andamento del mondo dell’editoria, della sua vita personale o anche dal suo linguaggio fotografico in evoluzione?
Alla fine degli anni Sessanta ho prodotto molti reportage all’interno delle fabbriche, su commissione di alcuni giornali economici. Mi piaceva molto quel tipo di lavoro, ma non riuscivo a guadagnare abbastanza, anche perché in quel periodo storico era molto difficile essere una donna reporter. Il lavoro commissionato a una donna era sporadico, soprattutto producendo reportage. Così, conoscendo, tra le frequentazioni al bar Jamaica, Flavio Lucchini, creatore di Vogue Italia, ricevetti la proposta di iniziare a lavorare per loro. Inizialmente ero molto perplessa perché, da fotografa politicizzata e militante, guardavo alla moda come un qualcosa di frivolo, invece poi mi sono dovuta ricredere. Ho dovuto ricominciare dalle basi, perché lavorare in studio è altra cosa rispetto al reportage, dalle luci all’uso stesso delle macchine fotografiche, ma la mia proverbiale curiosità mi ha aiutato anche in questa nuova sfida.
La fotografia di moda, in quel periodo, era impersonificata da Avedon, Penn, un’estetica in cui capeggiava la modella su fondale bianco con un’esaltazione del vestito. A me invece piaceva costruire una narrazione attorno all’oggetto o alla modella, una costruzione che raccontasse lo spirito di quel tempo, il momento storico. La mia ispirazione in quegli anni, forse, erano più il cinema e l’arte, non tanto la fotografia. A me, ad esempio, Deserto Rosso di Antonioni ha aperto un mondo visionario e visivo. Dal punto di vista narrativo, poi, con la fotografia di moda mi sono dovuta concentrare maggiormente sul processo creativo, sulla progettualità staged. Alla fine è una realtà inesistente che viene costruita ex novo
Guardandosi indietro, a tutta la sua produzione fin dagli inizi, qual è il suo fil rouge?
Io ho cercato di portare il reportage dentro la moda in qualche modo. Il mio fotografare per la moda non si limitava al prodotto, ma raccontava la società del tempo, come facevo anche nei miei reportage.
E come ha vissuto il cambio stilistico dal bianco e nero del reportage al colore?
Non me lo ricordo come un grande trauma a dire il vero. L’unico scoglio è stato imparare a lavorare con delle macchine fotografiche che prima non usavo.
Negli ultimi anni, però, è tornata a un racconto reportagistico, con progetti sui luoghi in cui mette radici, a Filicudi prima, e più recentemente a Rocchetta Tanaro nel Monferrato. Come la sua vita dialoga con la sua produzione creativa e fotografica? E come si motiva il ritorno al reportage, amore mai dimenticato, potremmo dire?
Ho vissuto per molto tempo a Filicudi e prima di andare via ho voluto omaggiare i suoi abitanti ritraendoli. Ma entrambi i lavori, sia a Filicudi, sia a Rocchetta Tanaro, sono progetti che ho prodotto più per me, per una mia necessità personale.
Oltre al ritorno dell’amore mai dimenticato per il reportage, tra gli ultimi lavori figurano anche molti collage di un’ironia pop. Ce ne parla?
A Filicudi aveva casa Ettore Sottsass, caro amico. Ettore amava Filicudi e l’India. E per omaggiare il mio caro amico ho fotografato i santi che compaiono nelle chiese di Filicudi come fossero santi indiani e aggiungendo dietro, come scenario, dei fiori del giardino. Dei collage a cui ne seguirono altri sei, con altri personaggi, seguendo la mia passione per le miniature, il concetto di falso e vero, quell’ambiguità che mi ha sempre attratto.
L’elemento ironico è molto importante nella sua produzione per la moda. Nasce dalla sua personalità, a priori, o durante l’evoluzione del suo pensiero creativo, a posteriori?
Penso che appartenga a priori alla mia personalità. Fa parte del mio modo di affrontare la vita. Deriva dalle mie origini napoletane, mia nonna aveva lo stesso approccio alla vita.
Per saperne di più sul lavoro di Maria Vittoria Backhaus: mariavittoriabackhaus.it