Da diversi anni Luciano Zuccaccia, appassionato ricercatore del linguaggio fotografico, ha dato vita ad una specifica collezione di libri fotografici, Protest in Photobook, in cui la rappresentazione della protesta si manifesta come fil rouge dell’intera raccolta. Più di seicento libri, riuniti e allestiti in quella che è la sua casa/studio di Montefiascone (VT), sono consultabili attraverso il sito web protestinphotobook.com, tramite il profilo instagram @protesinphotobook, oppure dal vivo previo appuntamento. Abbiamo raggiunto Luciano e fatto due chiacchiere insieme a lui per farci raccontare cosa contiene la sua collezione…
Come e quando nasce la tua collezione di libri sulla protesta?
Mi occupo di fotografia da trent’anni, da venti di libri fotografici, divenuti, nel tempo, il vero focus della mia ricerca. Con l’editore Postcart, ad esempio, nel 2018, ho pubblicato un mio libro, Un mondo di libri, in cui analizzo, insieme a vari fotografi, il loro rapporto con il libro fotografico. Agli inizi del 2000 non c’erano gli strumenti e le opportunità di oggi per approfondire la produzione dei libri fotografici, di conseguenza ho iniziato ad andare direttamente dagli autori per saperne di più. È venuto poi naturale pensare di pubblicare le nostre conversazioni sul libro fotografico. Quindi, mentre facevo ricerca sull’argomento ho iniziato una mia collezione generica.
Come hai pensato allo specifico focus sulla protesta?
Confrontandomi con altri ricercatori ho capito che era più incisivo applicare un pensiero selettivo alla collezione, perché altrimenti si rischia di non essere efficaci. La scelta di un focus specifico ti restringe il campo e ti permette di fare delle scoperte sempre più settoriali e sempre più interessanti. Io non sono interessato tanto alle opere rare di autori storicizzati, che hanno anche un certo costo, ma alle produzioni più laterali, marginali, meno in vista. El movimiento sindacal (Nuestra Tierra, 1969), una riflessione di Germán D’Elía sul ruolo del sindacato in Uruguay alla fine degli anni Sessanta, esemplifica questo concetto. Per la mia ricerca è un tassello molto importante perché apre la strada al libro inteso come documento, in questo caso come documento della storia di un Paese. Questo, come molti dei libri presenti in collezione, sono libri dal costo non esoso, che io cerco di mettere insieme per la loro valenza di documento.
A quanto ammonta la collezione?
Più o meno a seicentoventi libri.
Il focus sulla protesta è nato selezionando dei libri che già possedevi?
Già avevo un centinaio di libri che poi avrei inserito nella collezione. Avevo i libri di Tano D’Amico, molti libri americani sui diritti civili, ad esempio, ma non li avevo pensati né catalogati con un pensiero specifico. Quella è stata la mia partenza. Il focus sulla protesta mi ha illuminato su molte opere che non avrei, altrimenti, mai considerato e mi ha mostrato i libri che avevo già sotto una luce nuova di significato.
I libri della tua collezione provengono da tutto il mondo e soprattutto rappresentano le proteste in tutto il mondo. Quali sono le zone più rappresentate e quali meno?
Dal punto di vista geografico, rappresentativamente parlando, la collezione ha anche dei buchi, che cerco, piano piano, di colmare. Per quel che riguarda la rappresentazione della protesta in America ho molto materiale, come anche per la Francia, il Giappone, la Germania e ovviamente per l’Italia, sono, invece, carente di materiale dalla Tunisia, ad esempio, dalla Turchia, dall’Afghanistan e in generale dalla parte asiatica. Per me quindi la rarità di un libro non riguarda tanto l’edizione o il nome dell’autore, ma, come in questo caso, anche il Paese di cui rappresenta la protesta.
Qual è il concetto di “protesta” su cui ti sei basato per mettere insieme la collezione?
Questa è una domanda che mi sono posto fin dall’inizio e su questo argomento mi sono sempre confrontato tantissimo con colleghi e altri addetti al settore. Finora mi sono dato una definizione di “protesta” molto fluida, una definizione del concetto che oscilla tra protesta e propaganda. I miei libri stanno in mezzo a questi due elementi.
È una protesta intesa politicamente?
Non può essere una questione semplicemente di rivendicazione politica, è più una questione di visione. Anche un libro di protesta per l’ambiente può essere incluso nella mia collezione.
Quindi è più il concetto di “conflitto” quello di cui cerchi la rappresentazione?
Probabilmente sì, che può essere un conflitto politico, sociale, tecnico, anche di linguaggio. Un conflitto che in qualche modo mette in discussione anche la storia e agita le menti di chi ne fruisce. Ad esempio Leopold’s Legacy (The Eriskay Connection, 2020) di Oliver Leu, in merito a questo aspetto, è molto interessante. L’autore ci mostra come Re Baldovino, re del Belgio dal 1951 fino alla sua morte negli anni ’90, molto apprezzato nel suo Paese tanto da vedersi intitolati monumenti e strade, perpetrasse una colonizzazione molto repressiva in Congo. Il libro vuole far smuovere le coscienze, cercando di ricodificare la veridicità storica della figura di un re. Non è semplicemente la rappresentazione di una protesta, ma il libro è esso stesso una protesta, una protesta storica atta a far prendere coscienza.
Nel tempo il modo di rappresentare la protesta è cambiato, oltre ad essere cambiate le proteste stesse. Come questa evoluzione si riscontra nella tua collezione?
Ovviamente c’è stata un’evoluzione nel modo di rappresentare le proteste: prima di tutto negli anni Sessanta e Settanta si usava soprattutto il bianco e nero, adesso il colore è preponderante e i fotografi si esprimono diversamente, in maniera forse più concettuale. Nel linguaggio contemporaneo, poi, si manifesta, molto più che in passato, l’autorialità del fotografo, intendendo la fotografia più come linguaggio e meno come documento. È il caso, ad esempio di Rafal Milach con Strajk/Strike (JEDNOSTKA Gallery, 2021). Inoltre, un elemento importantissimo per la nuova produzione editoriale è l’aspetto grafico. Un antesignano del linguaggio contemporaneo, da questo punto di vista, è stato Mario Cresci, presente in collezione con Roma 1968 (Editrice Quinlan, 2023), uno dei primi ad interessarsi alla grafica intesa essa stessa come linguaggio.
Nella tua collezione, nel tuo modo di crearla, di organizzarla, nel creare un sito di ricerca, è evidente anche il tuo spirito divulgativo…
Sicuramente. Un motore importante della collezione è soprattutto il confronto, l’arricchimento che mi arriva dagli incontri con le persone, non solo studiosi o altri collezionisti. All’ISIA di Urbino, ad esempio, si è appena laureato Lorenzo Allas De Beni con una ricerca di tesi, 68 Fotolibri di protesta, che indaga la mia collezione. Lo spirito con cui ho avviato la collezione non era dettato da un’esigenza di possesso o da semplice feticismo per i libri, ma dal desiderio di condividere la mia raccolta e creare una rete attorno ad essa, cercando, parallelamente alla sua creazione, di generare anche degli strumenti di lettura che ne rendessero più facile la fruizione e la divulgazione, come ad esempio il sito protestinphotobook.com.
Una parte fondamenta di questa collezione è la ricerca e la conoscenza di pubblicazioni rare e sconosciute, più mi addentro nel genere e più emergono storie, veicolate e tramandate dai libri, che raccontano di eventi e di accadimenti del passato o di luoghi lontani. La testimonianza che il libro fotografico può trasmettere ha un valore storico e racconta di come i fotografi, noti e non, siano riusciti a comunicare quell’evento. Inoltre la collezione offre degli spunti per molti fotografi che lavorano in questo ambito e che mi scrivono per ringraziarmi per ciò che mostro. Queste testimonianze mi fanno capire che il lavoro di reperire i libri non è solo per i collezionisti, una minoranza nel mondo della fotografia, ma soprattutto per i tanti fotografi che hanno bisogno di fonti per crescere, me compreso.
Cos’è il collezionismo per te?
Se parliamo di collezionismo credo che la strada che ho intrapreso sia nel solco tracciato da Martin Parr e Gerry Badger (The Photobook: a History Vol.I, II, III), ossia di concentrare la ricerca su un argomento specifico per non disperdere le energie e segnare un punto nel panorama mondiale, e penso che sarà questa la strada che molti curatori porteranno avanti.
Come reperisci i libri della tua collezione?
La cosa principale, per me, è sapere dell’esistenza di quel libro specifico. Molto utili, da questo punto di vista, sono, infatti, i libri dei libri, antologie sulle produzioni editoriali di un singolo Paese, o di uno specifico periodo storico, come, ad esempio, The Enghelab Street. A revolution through books: Iran 1979 – 1983 (Spector Books, 2019) di Hannah Darabi. Il libro si concentra sulla produzione editoriale nel periodo immediatamente successivo alla caduta dello Shah in Iran e precedente l’instaurazione del regime islamico.
Inoltre una cosa molto importante per me e per il reperimento dei libri da inserire in collezione è la rete di amici, conoscenti e altri collezionisti che, sparsi per il mondo, mi aiutano nella logistica: nell’andarmi a prendere fisicamente il libro, nel segnalarmi un libro che sanno potrebbe interessarmi, e poi spedirmelo.Un ulteriore problema è il costo delle spedizioni, interessandomi a libri non di grande valore economico spesso la spedizione mi costerebbe più del libro stesso, quindi, in quel caso, cerco di aspettare che si presenti l’occasione giusta in cui qualcuno di mia conoscenza, a cui affidare il libro, raggiunge l’Italia. Il lavoro del collezionista richiede molta pazienza.
Dopo aver reperito il libro e averlo ricevuto, quali sono i passaggi successivi?
Con il libro tra le mani, per prima cosa, lo studio, per cercare di comprenderlo, in seguito ne fotografo gli interni e la copertina con uno stativo, creo la scheda con le informazioni bibliografiche e una breve sinossi, per ultimo, carico tutto il materiale prodotto sul sito, che risulta così un archivio della collezione, a scopo divulgativo.
Nella tua libreria la collezione è disposta per ordine alfabetico?
Sì, per autore. E laddove l’autore non è espresso, cosa che accadeva spesso prima degli anni Novanta, li raccolgo in una libreria separata per facilitarne la visione.
Mi racconti un libro rappresentativo della collezione?
House of Bondage (Random House, 1967) di Ernest Cole è sicuramente tra i più rappresentativi. Il libro è stato pubblicato per la prima volta in America nel 1967 e in Gran Bretagna nel 1968, raccontando dell’apartheid, delle repressioni che avvenivano per le strade del Sudafrica. In 185 fotografie, il libro di Cole mostra, dal punto di vista degli oppressi, come il sistema regolasse e controllasse da vicino la vita della maggioranza nera. Il motivo che rende particolare questo libro, oltre al suo contenuto ovviamente, è il modo con cui Cole riuscì a convincere le autorità africane a fagli produrre la sua documentazione e cioè raccontando che quelle immagini dovevano servire a denunciare le attività criminali adoperate dai giovani di colore nei confronti della popolazione bianca. Con questo stratagemma Cole riuscì a scattare le foto e, insieme alle immagini, ad arrivare in America dove poté stampare il libro, senza, però, poter fare più ritorno in Sudafrica.
Come dicevamo prima, la collezione si compone anche di molti libri di propaganda, prodotti dagli stessi governi…
La propaganda si manifesta anche in alcuni libri non prodotti direttamente dai governi, risultando evidente esclusivamente in rapporto alla vita editoriale del libro stesso. Questo è successo, ad esempio, per Days of Blood, Days of Fire (Spector books, edizione europea, 2014) di Bahaman Jalali, Rana Jalali, Hadi Haraji, Mahmoud Mohammadi, Behrouz Shahidi, pubblicato, nel 1979 a Teheran, dall’editore Zamineh. Il libro è importante, oltre che per il racconto in sé della rivoluzione iraniana, soprattutto per altri due motivi: la tiratura di trentaduemila copie, che rivela come ci fosse, da parte della popolazione iraniana, l’intenzione reale a capire le dinamiche del conflitto, gli attori coinvolti; e, inoltre, la storia, successiva alla pubblicazione, della casa editrice Zamineh, chiusa dal governo iraniano che inasprì il controllo e la censura sui contenuti culturali con la nascita del Ministero di Cultura e dell’Orientamento islamico.
Questo libro risulta, infatti, come uno spartiacque sul concetto di rappresentazione della protesta in Iran, prima della rivoluzione e dopo la rivoluzione.
Invece, i libri prodotti, nel 1981, direttamente dal Ministero di Cultura e dell’Orientamento islamico, in Iran, sono i quattro volumi di The Revolution of Light, ad esempio. Classico esempio di libro propagandistico, stampato in trentamila copie, per diffondere il pensiero egemone.
La collezione è stata mai esposta?
Interamente no. Concedo prestiti per festival, mostre o altri eventi legati alla produzione editoriale, ma solitamente l’esposizione è relativa a specifici focus della collezione. Ad esempio al Sanremo Photobook Festival ho esposto la selezione sul Cile oppure a Lipsia, a marzo, sarà in mostra la parte relativa all’Iran. Inoltre con grande piacere ho intrapreso una collaborazione con la Fondazione Artphilein di Lugano dove alcuni libri della collezione hanno già partecipato ad una loro esposizione sui libri del Venezuela e attualmente per una mostra dal titolo Against Power and Privileges: Women’s Voices, libri fotografici realizzati da donne fotografe, racchiusi nel Dossier 4 edito da Artphilein. Il mio scopo è quello di far circolare i libri e farli vedere, per diventare un riferimento nella ricerca di settore.
Per saperne di più della collezione è possibile consultare il sito ufficiale di Protest in Photobook.