La carriera di Jacques Henri Lartigue ripercorsa in una mostra con 120 opere, 55 delle quali inedite. L’occasione per riscoprire un autore che fece della fotografia una filosofia di vita per la ricerca di ciò che spesso è inafferrabile.
Tra i vari fotografi che dovettero la propria fama oltreoceano a John Szarkowski, direttore del dipartimento di fotografia del MoMA di New York dal 1962 al 1991, ci fu Jacques Henri Lartigue. Ancora fresco di nomina, nel 1963 il curatore americano allestì la mostra The Photographs Of Jacques Henri Lartigue, che ripresa anche dal settimanale Life fece scoprire ai collezionisti e agli appassionati della Grande Mela un autore a loro pressoché ignoto. Eppure, il fotografo francese aveva all’epoca già quasi 70 anni, essendo nato nel 1894, e in patria si era già costruito una buona fama anche come pittore, illustratore e scenografo.
Jacques Henri Lartigue: enfant prodige
Lartigue era un vero e proprio enfant prodige che si era dedicato alla fotografia fin dall’età di 7 anni, quando ricevette una macchina fotografica in regalo dal padre, e che due anni dopo giocava con le doppie esposizioni per realizzare immagini di “fantasmi”. Ma lasciando da parte le note biografiche, ci si potrebbe chiedere se le opere di Lartigue conservino un’attualità anche nel terzo millennio oppure se debbano essere relegate a quegli studi storici per i quali il passato è un capitolo chiuso. La risposta è che esse hanno ancora un senso, non tanto perché possano essere reinterpretabili dal gusto contemporaneo, ma perché costituiscono un archetipo di tanta fotografia d’oggi soprattutto di provenienza amatoriale.
Come sui social
Il titolo che i curatori Marion Perceval, Charles-Antoine Revol e Denis Curti hanno scelto per la mostra fotografica di Lartigue a Venezia è L’invenzione della felicità, ed è più appropriato di quanto potrebbe sembrare. Infatti, non si riferisce solo alle immagini più famose dell’autore, quelle scattate durante i primi decenni del secolo scorso all’alta borghesia francese che si godeva la spensieratezza della Belle Époque, le passeggiate al parco parigino del Bois de Boulogne, le competizioni sportive, i pomeriggi al mare. Si presta anche a descrivere il rapporto che l’opera di Lartigue ha con la miriade di immagini che ogni giorno vengono postate in rete e nei social network. Non si tratta di una relazione di filiazione, cioè di una presunta discendenza diretta dei fotoamatori digitali dall’autore scomparso nel 1986. Il trait d’union è piuttosto un modo molto simile di approcciare la fotografia, una questione più di spirito che di intenti.
Fin da piccolo, Lartigue era affascinato dal mondo che lo circondava, lo trovava eccitante e voleva conservarne la memoria con i propri disegni, i diari e, ovviamente, con i propri scatti. Anche da adulto cercava di rincorrere e afferrare quei soggetti e quelle situazioni che ispiravano il senso di gioioso stupore di fronte alla realtà che è tipico dei bambini. Che è esattamente ciò che molto spesso viene fatto da tanti tra coloro che in quest’epoca creano immagini per condividerle tramite Instagram o Facebook.
Costoro fotografano paesaggi esotici e gli angoli più romantici delle città, imprese sportive, artisti di strada dal talento inaspettato, eventi naturali di proporzioni bibliche, situazioni tanto comiche da sembrare incredibili: cercano di catturare ciò che li lascia a bocca aperta e che potrebbe suscitare la stessa reazione a coloro, spesso degli sconosciuti, ai quali mostreranno le proprie foto. Sicuramente sono interessati più a conquistarsi Like e follower che a realizzare reportage di viaggio o progetti di street photography, ma resta il fatto che uno degli ingredienti di base dei loro scatti è quel senso di tranquillizzante stupore di fronte al mondo che in qualche modo riesce a controbilanciare il pessimismo e la sfiducia alimentati dalle notizie che si leggono negli stessi siti web e social network che danno spazio alle loro foto.
Alla ricerca della felicità
Certamente le immagini pubblicate sui social da sole non possono riportare sulla terra una volta per tutte la felicità, né fu tantomeno Lartigue a riuscirci. Però riguardo all’autore francese si può dire che per questioni anagrafiche fu tra i primi ad avvicinarsi alla fotografia con una spensieratezza che forse chi l’aveva preceduto non aveva potuto permettersi. I pionieri che avevano operato prima di lui, infatti, avevano dovuto lavorare con una tecnologia e strumenti ancora molto primitivi, basti pensare per esempio che i lunghi tempi di posa della ritrattistica di fine Ottocento imponevano ai soggetti di mantenere delle espressioni che li facevano sembrare più morti che vivi.
Oppure si erano dovuti battere contro la diffidenza di coloro, molti, che li consideravano come barbari che bivaccavano ai confini dell’impero della pittura. Lartigue, invece, non aveva nulla da inventare o da dimostrare e quindi poteva concentrarsi su ciò che gli interessava maggiormente: la vita distante da qualsiasi preoccupazione e le persone libere dai turbamenti delle guerre e della fame. Quindi, più che di invenzione si dovrebbe parlare di ricerca della felicità, o perlomeno delle relative manifestazioni catturabili con un obiettivo fotografico. Questo fece Lartigue: cercò nel mondo reale quella dimensione da sogno nella quale il corso del tempo non viene mai interrotto dai momenti bui della storia.
Le fotografie contenute in questo articolo fanno parte della mostra Jacques Henri Lartigue. L’invenzione della felicità. Fotografie
- Casa dei Tre Oci - Venezia
- fino al 12 giugno 2020
- treoci.org