In macrofotografia la profondità di campo non è mai abbastanza. Chiudere il diaframma non è sempre la scelta migliore: la diffrazione è in agguato e anche la qualità del bokeh ne risente. Ma non disperiamo: se il soggetto non ha fretta di andar via, viene in soccorso la tecnica del focus stacking.
In macrofotografia, genere in cui si ha a che fare con rapporti di ingrandimento molto elevati, la profondità di campo si riduce drasticamente. Un solo esempio: riprendendo con una reflex a formato pieno equipaggiata di obiettivo macro da 105mm un soggetto a 30cm di distanza dal piano focale (pellicola o sensore che sia) e regolando il diaframma a f/16, la profondità di campo è di appena 5mm, equamente distribuita davanti e dietro il piano di messa a fuoco. Chiudendo ulteriormente il diaframma a f/32 la zona nitida si estende fino a 10mm, ma di sicuro incappiamo nella diffrazione, un’aberrazione che si manifesta quando i raggi di luce passano attraverso un foro di piccole dimensioni. Quindi il guadagno in profondità di campo lo perdiamo sul fronte della nitidezza. Senza considerare che le zone che comunque resteranno fuori fuoco assumerebbero un aspetto (il bokeh) poco gradevole. In questi casi ai tempi della pellicola si poteva ricorrere alla complessa tecnica della macrofotografia a scansione, laddove il soggetto veniva illuminato da una lama di luce (lineare o circolare) proveniente da un illuminatore solidale con la fotocamera; il soggetto, ovviamente statico, veniva fatto scorrere a velocità lenta e controllata durante una posa B: una sorta di scansione ante litteram. Oggi il computer ci dà una mano, rendendo possibile con relativa facilità la tecnica del focus stacking (letteralmente, stratificazione dei piani di messa a fuoco), quindi la combinazione di più immagini realizzate in sequenza, con minime variazioni della messa a fuoco tra uno scatto e l’altro.
La tecnica del focus stacking consente di incrementare notevolmente la profondità di campo attraverso la fusione di più scatti, ognuno eseguito dopo aver spostato di poco il piano di messa a fuoco, ossia quello nitido. Anziché agire sulla ghiera di messa a fuoco, fissare l’intero sistema su una staffa micrometrica e agire su quest’ultima è una buona soluzione per limitare le variazioni dimensionali del soggetto causate dalla variazione di lunghezza focale provocata, specialmente, dai moderni sistemi di messa a fuoco interna. Un prodotto di qualità può arrivare a costare anche qualche centinaio di euro, ma volendo procedere “con cautela”, a buon mercato si trovano prodotti validi per sperimentare la tecnica. La foto in alto è stata realizzata fondendo assieme 13 immagini catturate con una Nikon D200 e il 105mm Micro Nikkor montati su una staffa micrometrica economica (meno di 15 euro).
Focus stacking: come fare
Analogamente ad altre tecniche multiscatto, come l’HDR o la fotografia panoramica, dove di ogni fotogramma viene presa la zona utile, nel focus stacking l’immagine finale è data dalla somma delle parti a fuoco di ciascuna immagine. La fusione degli scatti, che avviene al PC tramite software dedicati il cui funzionamento è quasi del tutto automatizzato, non impegna oltremodo il fotografo; più intricata è invece la fase di ripresa, dovendo sommare alle già complicate regole che governano la macrofotografia, anche quelle che consentono una corretta realizzazione della sequenza di scatti. Ad esempio, bisogna quantomeno considerare la variazione del rapporto di ingrandimento alle varie distanze di messa a fuoco; il fenomeno è legato alla variazione dell’elicoide del diaframma, che introduce un mutamento progressivo della focale e di conseguenza dell’ingrandimento del soggetto all’interno del fotogramma; molto evidente in macrofotografia, è ovviabile (almeno in parte) fissando la messa a fuoco su un punto e muovendo la fotocamera lungo una staffa micrometrica (il metodo è quanto di più simile alla macrofotografia a scansione di analogica memoria); se ne trovano a pochi euro online, ovviamente di qualità non paragonabile a quella di prodotti professionali, ma per sperimentare è una spesa che vale la pena affrontare. Ovviamente i software di fotoelaborazione sono pensati per tener conto del problema, e a fronte di un leggero crop correggono in automatico il “difetto”. I più preparati avranno quindi già dedotto quanto sia opportuno allargare l’inquadratura rispetto alla composizione ritenuta ottimale.
Per estendere la profondità di campo in macrofotografia, il primo accorgimento consiste nel chiudere più possibile il diaframma. Ma questa azione ha diverse controindicazioni: innanzitutto si allungano i tempi di esposizione e quindi diventa obbligatorio l’uso del flash o del treppiedi o di tempi di scatto rapidi e del conseguente innalzamento della sensibilità ISO, senza contare il certo calo di nitidezza dovuto dall’insorgere del fenomeno della diffrazione. Al riguardo, si osservi questo confronto tra gli scatti realizzati alla massima (f/2,8) e alla minima apertura (f/22) consentite dal nostro obiettivo e lo stacking fotografico frutto della fusione di 18 immagini realizzate a f/5,6 (il punto di ripresa è il medesimo). Sebbene negli scatti singoli l’influenza dell’apertura del diaframma sulla profondità di campo sia più che evidente, nemmeno lavorando al valore minimo, con un soggetto così esteso in profondità, è stato possibile ottenere un’immagine dove il righello apparisse completamente a fuoco. L’immagine finale ottenuta con Helicon Focus, presenta invece il soggetto completamente a fuoco, anche alle due estremità. E oltretutto il diaframma di lavoro, quindi il valore impostato per realizzare gli scatti, è quello ottimale, ovvero in grado di restituire il massimo potere risolvente dell’ottica e uno sfocato senza dubbio più gradevole rispetto a quello ottenibile lavorando a diaframmi compresi tra f/16 e f/32.
Non c’è una regola facilmente formulabile per determinare quanti scatti sono necessari per comporre una sequenza senza lacune. Dipende innanzitutto dal diaframma che utilizziamo (suggeriamo un’apertura media, f/8 o f/11), dalla distanza di ripresa, dalla profondità del soggetto e dall’estensione della sua porzione che intendiamo riprodurre nitidamente. Insomma, è quanto mai opportuno fare un po’ di pratica. Ciò che conta, lo ripetiamo, è generare una serie di immagini la cui zona nitida sia almeno in minima parte comune a quella presente nelle immagini adiacenti. Nessuno vieta, allo scopo, di esagerare col numero di immagini, ma così facendo andremo ad appesantire il lavoro del computer. Anche per evitare queste perdite di tempo, l’esperienza darà presto i suoi frutti.
La staticità del soggetto durante l’esecuzione del focus stacking è fondamentale. Nel caso di macro naturalistiche bisogna quindi non solo padroneggiare la tecnica, ma conoscere anche le abitudini del soggetto fotografato. Molto spesso, insetti come questi sono meno attivi alle prime luci del sole. Le foto sono di Gilles San Martin e di Gabriel Gonzales.
Fissata quindi la fotocamera sul treppiedi, si imposta il diaframma di lavoro ottimale dell’obiettivo – regolando di conseguenza il tempo e cercando di mantenere bassa la sensibilità ISO a vantaggio della risoluzione – si seleziona la messa a fuoco manuale e, se disponibile, si attivano il presollevamento dello specchio o lo scatto ritardato qualora non si disponesse di un comando remoto. Lavorare in Live View, con ingrandimento al 100%, può essere un accorgimento prezioso per evitare errori di messa a fuoco (i “buchi” tra uno scatto e l’altro). Dopo aver focheggiato una delle due estremità del soggetto (la più vicina o la più distante rispetto al punto di ripresa) si inizia a fotografare e aggiustando micrometricamente, scatto dopo scatto, la messa a fuoco, si giunge all’estremità opposta a quella di partenza. Se, però, la semplice escursione della ghiera di messa a fuoco non è sufficiente a garantire la copertura del soggetto nel suo sviluppo in profondità (o perché questo è troppo lungo o perché, al contrario, è troppo piccolo e il rapporto di ingrandimento necessario a riempire il fotogramma aumenta) si deve ricorrere per forza di cose alla staffa micrometrica, alla quale ovviamente assicurare la nostra fotocamera. Questo accessorio, che va a sua volta fissato a un solido treppiedi, consente di traslare il punto di ripresa con estrema precisione grazie a una cremagliera azionata da un pomello con possibilità di blocco. Ne esistono di vari tipi, anche con movimenti laterali, poco utili nel nostro caso.

Il focus stacking al PC
Le immagini così ottenute possono essere quindi trasferite sul pc e date in pasto ai software di fotoelaborazione. Alcuni di questi, come Adobe Photoshop, integrano una funzione generica per la fusione fotografica (sia esso panoramica, di tipo esposimetrico per l’HDR o basata, appunto, sulla messa a fuoco) altri sono progettati esclusivamente per la realizzazione del focus stacking. Tra questi, per facilità di utilizzo, rapidità di lavorazione e precisione nella fusione degli scatti, molto apprezzato in ambito scientifico è Helicon Focus. Basato su un algoritmo che analizza (e fonde in automatico tra loro) le zone con il maggior contrasto di ciascuna delle immagini selezionate, ha il pregio di sfruttare la medesima finestra di lavoro sia per la combinazione automatizzata degli scatti, sia per l’ottimizzazione manuale, tramite cursori, dell’immagine finale. È in grado di leggere il formato DNG e l’esportazione può essere eseguita anche in TIFF a 16 bit. Il software è di tipo shareware, quindi scaricabile liberamente e utilizzabile senza limitazioni per trenta giorni; trascorso il periodo di prova, il programma sovrapporrà una filigrana alle immagini finali e la risoluzione verrà limitata a 4MP. Il costo della licenza varia a seconda della versione scelta (Lite, Pro o Premium): da 29 a 63 euro per l’attivazione annuale o da 112 a 234 euro per quella di durata illimitata.
