Se siete della scuola “Una buona fotografia non ha bisogno di parole” vi invitiamo a tornare su queste righe solo dopo aver fatto un giro tra le pagine di Evidence, libro datato 1977, frutto di una delle innumerevoli collaborazioni tra i due artisti e fotografi Larry Sultan e Mike Mandel. Il titolo è tra quelli spesso inseriti nella fatidica lista dei volumi che proprio non possono mancare nella libreria di un autentico appassionato di fotografia, e il perché è presto detto: Evidence rappresenta un punto di svolta e innovazione nell’ambito della fotografia concettuale, definito dal New York Times un vero e proprio spartiacque nella storia della fotografia.
I padri di "Evidence"
Per ripercorrere la storia di uno dei libri cult della fotografia torniamo indietro nel tempo fino al 1974, anno in cui un giovane Larry Sultan incontra un giovane Mike Mandel a San Francisco. Entrambi artisti freschi di laurea, dottorandi presso il San Francisco Art Institute, si scoprono sorprendentemente compatibili: condividono precedenti studi in scienze politiche e un profondo interesse per l’arte concettuale. La personalità analitica di Mandel e la vocazione letteraria di Sultan si stimolano a vicenda e in men che non si dica i due avviano una collaborazione volta a sfidare il panorama artistico di San Francisco.
Buttano giù numerosi progetti a quattro mani, tra cui uno che li vede in giro per agenzie governative pubbliche e private, istituti di ricerca e aziende locali a caccia di fotografie da inserire nel rivoluzionario libro che pubblicheranno nel 1977 con il titolo Evidence (Prove).
Immagini d’archivio Top Secret
Affamati di immagini d’archivio, originariamente scattate con la funzione di oggettiva documentazione, Sultan e Mandel visionano ben due milioni e mezzo di fotografie, setacciando l’intero territorio della California, per poi concludere con una rapida puntatina a Washington D.C..
In tre anni di ricerca bussano alla porta della Bechtel Corporation, della General Atomic Company, dei Jet Propulsory Laboratories, dello United States Department of the Interior, dei Dipartimenti di Polizia e dei Vigili del fuoco, della NASA, della RAND Corporation e di un’interminabile lista di potenziali fonti di materiale idoneo.
Ancora oggi, a più di quarant’anni dalla loro impresa titanica, viene spontaneo chiedersi come i due potessero ottenere l’accesso agli archivi di numerose istituzioni top secret. “Con una combinazione di innocenza e spavalderia – scrive Sandra S. Phillips nel testo di introduzione di una riedizione del volume – riuscivano a persuadere i guardiani dei documenti non solo a lasciarli entrare e a frugare tra gli archivi, ma persino a portar via con sé qualche foto, spesso senza pagare nulla”.
Il più delle volte l’ingegnoso duo convinceva i custodi presentando una richiesta formale su carta intestata della Clatworthy Colorvues – società fittizia fondata dagli stessi Mandel e Sultan nel 1974 – alla quale venivano allegati il certificato di sovvenzione del National Endowment for the Arts (NEA) e la lettera del curatore del San Francisco Museum of Art (successivamente rinominato San Francisco Museum of Modern Art), John Humprey, che attestava il consenso per l’organizzazione di una mostra con il materiale raccolto durante la ricerca.
Dei tre il documento emesso dal NEA era l’effettivo passepartout, l’elemento che faceva supporre alle varie istituzioni che ammettendo i due artisti avrebbero preso parte a un importante progetto governativo.
Sebbene in diversi casi le richieste di accesso furono declinate per preservare la riservatezza di alcune informazioni contenute nelle immagini, nella maggior parte degli archivi ai due autori fu concessa la consultazione del materiale classificato come desecretato, spesso corrispondente a fotografie scattate negli anni Cinquanta e Sessanta. Le immagini raccolte da Sultan e Mandel, dunque, erano prevalentemente fotografie in bianco e nero scattate con l’ausilio del flash e stampate nel formato 4×5 pollici (10x12cm): ironicamente, una tecnologia fotografica del passato che registrava, a modo suo, indizi e prove sullo sviluppo della tecnologia del futuro.
L’aspetto innovativo di Evidence risiede nel fatto che i suoi autori decisero di pubblicare le 59 fotografie selezionate per il libro – e le 89 destinate alla mostra – senza alcuna didascalia. Le immagini decontestualizzate sono indecifrabili, l’osservatore è disorientato, abbandonato alla libera interpretazione di scene enigmatiche. Impronte di scarpe, misurazioni, esperimenti, corde, auto in fiamme, cavi, uomini infilati nel cellophane, letti sparsi su un prato: le pagine del libro mostrano procedure incomprensibili che suscitano domande e non regalano risposte.
“Nel complesso – sosteneva Mandel – Evidence suggerisce un’atmosfera misteriosa di un inspiegabile futuro disumanizzante, guidato dalla tecnologia”. In un’intervista rilasciata nel 2003 Sultan affermava che le fotografie raccolte per il progetto sembravano immagini di fantascienza sebbene riguardassero fatti scientifici realmente accaduti.
Evidence scardina l’assioma dell’eloquenza delle immagini, della corrispondenza tra fotografia e prova incontrovertibile dei fatti. Gli scatti del progetto reclamano il loro contesto, perché il contesto è parte integrante della fotografia. “La decontestualizzazione”, per dirla con Joan Fontcuberta, “polverizza la nozione che la fotografia sia la prova di qualcosa”.
L’osservatore avverte la mancanza di una linea guida perché ignora le circostanze in cui hanno operato gli autori delle fotografie. Certamente può fantasticare sullo scopo delle immagini soffermandosi su alcuni dettagli che appartengono a una determinata epoca, ma questa lettura debole e incompleta non fa che confermare che una fotografia, da sola, non è la prova concreta di un fatto accaduto. Evidence innesca un’importante riflessione sui limiti fisiologici del mezzo fotografico e per questo motivo viene ancora considerato un libro che tutti gli amanti della fotografia dovrebbero avere o, perlomeno, avere sfogliato almeno una volta.
In occasione dell’esposizione allestita presso il San Francisco Museum of Art Sultan e Mandel proposero una scommessa a John Humphrey: il curatore della mostra, nonché del Museo, si sarebbe aggiudicato una buona bottiglia di scotch se fosse stato capace di individuare una fotografia che gli stessi autori avrebbero scattato in stile Evidence per poi inserirla tra le immagini originali in mostra. Humphrey, attento scrutatore, riuscì a individuare lo scatto clandestino e ad aggiudicarsi il premio sul piatto. La “Fake” Evidence Picture è pubblicata nella seconda edizione del volume…una ragione in più per convincersi a dare un’occhiata al libro.
Data la loro valenza storica le copie della prima edizione di Evidence disponibili online arrivano a costare più di 2.000 euro. Qui sotto la scheda tecnica del libro in nostro possesso, una seconda edizione datata 2003. Da una ricerca in rete risulta che, nel momento in cui scriviamo, la cifra minima richiesta per entrare in possesso di una copia simile, ma usata, si aggira intorno a 140 euro spese di spedizione escluse.