Com’era il Salento, terra de “lu sule, lu mare e lu ientu”, all’inizio del XX secolo, quando la speculazione edilizia era ancora una realtà lontanissima, le spiagge non erano invase da lidi e turismo di massa, ci si spostava per lo più in bicicletta, in città arrivavano le fiere di bestiame e le persone vivevano la loro quotidianità andando a pesca, coltivando i campi, essiccando il raccolto o vendemmiando? Grazie a Giuseppe Palumbo e al suo archivio, resistito fino ai giorni nostri, possiamo saperlo.
Conservato, in parte, al Museo Castromediano di Lecce, il patrimonio lasciatoci dal fotografo salentino è un’eredità inestimabile per ricordarci le radici di un territorio ricco di tradizioni e cultura popolare. Palumbo si concentrò sulle scene di vita quotidiana, sulla documentazione dei reperti storici del Salento, sui volti delle persone che quella parte della Puglia la vivevano e la nutrivano nei primi anni del XX secolo. Abbiamo intervistato Brizia Minerva, storica dell’arte e curatrice dell’Archivio Giuseppe Palumbo.
Chi era Giuseppe Palumbo?
Giuseppe Palumbo è nato a Calimera, in provincia di Lecce, nel 1889, da un’agiata famiglia di proprietari terrieri. Come fotografo è stato una figura rivoluzionaria, in grado di dare una svolta alla storia della fotografia nel Salento. Quando da adolescente iniziò la sua attività, nel primo decennio del Novecento, il periodo pionieristico della dagherrotipia era già lontano e i nuovi procedimenti cominciavano a consentire la riproduzione di stampe in svariate copie, a differenza di quanto avveniva in precedenza: fu il momento del collodio e poi dell’albumina, che costituivano il collante dell’emulsione fotografica.
Come si inserì in quel periodo storico la pratica fotografica di Palumbo?
Palumbo era uno studioso, scriveva di cultura e storia locale su riviste di settore, nazionali e quotidiani; era, inoltre, molto curioso, di una curiosità vorace ed eclettica. Non è mai stato un fotografo professionista, da atelier; incarnava piuttosto la figura dell’intellettuale autodidatta e nonostante ciò la sua conoscenza e la sua formazione tecnica erano eccellenti. Come autodidatta, per l’appunto, impressionava le sue lastre, sviluppava e stampava.
Non abbiamo molte notizie sulla sua prima formazione, ma sappiamo che fondamentale, per lui, è stato il rapporto con Federico Lazzaretti, tipografo, disegnatore e calcografo. È inoltre probabile che il giovane Palumbo abbia avuto modo di partecipare alle lezioni che Augusto Barbieri, fotografo modenese di stanza a Lecce, impartiva allo stesso Lazzaretti.
Le prime cartoline fotografiche di Palumbo sono databili, attraverso i numeri di serie, al 1907. Questo ci permette di dire che, in quel periodo, disponeva già di conoscenze tecniche a cui si affiancava uno spiccato intuito nella scelta dei soggetti e delle tematiche.
Suo punto di riferimento è stata la produzione di Pietro Barbieri, padre di Augusto, fotografo della fine dell’Ottocento, che ha riconosciuto come l’antesignano di un modo diverso di guardare il mondo, autore di ritratti fotografici di costumi popolari indossati da dame dell’alta società.
Diversamente da Barbieri, Palumbo iniziò a fotografare quegli stessi abiti nell’ambiente popolare da cui provenivano, senza enfasi. Al tempo stesso, però, continuava a essere influenzato dal fotografo modenese nel modo che aveva di riprodurre monumenti, piccoli centri, piazze e paesaggi del Salento, che anche Barbieri aveva perlustrato con determinazione.
È vero che veniva chiamato “il fotografo in bicicletta”?
È proprio così. Palumbo amava percorrere il Salento con la bicicletta. Era il suo mezzo prediletto, non solo per una questione di necessità, per la scarsezza di altri modi di viaggiare – si consideri che, per l’epoca, la bicicletta era un mezzo fondamentale, in assenza di altro –, ma per lui era importante, anche e soprattutto, perché gli permetteva di raggiungere posti isolati e impervi. Con questo mezzo ha perlustrato e fotografato il Salento per cinquant’anni.
Qual è la storia dell’archivio Palumbo? Di quante immagini si compone e quali sono le tematiche affrontate da Palumbo?
L’archivio fotografico di Giuseppe Palumbo fu donato al Museo Castromediano di Lecce dalla figlia, Anna Palumbo, nel 1960, un anno dopo la morte del fotografo, come espressione della sua volontà. È composto da 1700 immagini su pellicola e lastre di vetro. Un altro nucleo di fotografie è conservato dalla figlia e sparso tra collezionisti privati.
L’archivio custodito da noi è suddiviso secondo l’ordinamento voluto dallo stesso Palumbo nelle seguenti grandi sezioni: paesi, genti, risorse, curiosità preistoriche, protostoriche e storiche, uomini egregi.
È lo stesso fotografo a raccontare in uno dei suoi diari, conservato presso l’archivio di famiglia, come la sua idea di redigere una storia fotografica di cose salentine ebbe origine da una commissione fattagli dal suo professore di storia al liceo P. Colonna di Galatina. A Palumbo fu chiesto, infatti, di fotografare i tre menhir di Zollino per la guida illustrata “Puglie” e questo lavoro gli fece scattare il desiderio di fotografare anche altri menhir e specchie, da lui stesso rinvenuti nelle campagne tra Calimera e Melendugno e corredarli di notizie storiche e descrittive. L’interesse suscitato in ambito scientifico e culturale da tali rinvenimenti e immagini, l’intensa attività di pubblicista e collaboratore di riviste, almanacchi, rassegne e brevi monografie, lo incoraggiò a proseguire.
Egli era inoltre consapevole che le sue immagini avrebbero fissato il ricordo di cose che andavano scomparendo, come le isole etnografiche delle comunità greche nella penisola salentina e albanesi nel tarantino, coi loro dialetti, i modi di vestire, usanze tradizionali ma anche i monumenti dell’età preistorica, gli avanzi di costruzioni messapiche, le cripte lasciate in balia dei contadini che le riutilizzavano sui loro terreni come ricoveri per i mandriani.
Qual era il suo metodo di documentazione e quale la sua strumentazione?
Nella prima fase della sua attività, Palumbo utilizzò una fotocamera con un grande chassis, 18×13, e successivamente una più maneggevole Zeiss Nettar, che da allora portò sempre con sé. Annotava, inoltre, appunti dei luoghi e persone fotografati su dei taccuini.
Per riprodurre i centri abitati, Palumbo partiva sempre da uno o più panorami del tessuto urbano per poi cogliere lo spazio cittadino in maniera più ravvicinata. Piazze e scorci erano sempre animati dalla vita sociale del luogo, con un particolare interesse antropologico.
Oltre ad una ricerca personale, dettata dalle sue radici salentine, nelle immagini di Giuseppe Palumbo si può riscontrare anche una ricerca estetica?
Palumbo esercitava un forte controllo sull’immagine, in modo da evitare squilibri compositivi, interpretazioni divergenti o sorprese. Anche nelle scene più prosaiche, relative alle attività di contadini che sarchiano, zappano, raccolgono olive, tornano a casa dal lavoro, si ispirava, nella composizione delle scene, a pittori di varie epoche come Manet, Millet, Daumier, ma anche Giotto. I suoi tributi riguardarono anche artisti locali che conosceva e apprezzava come Giuseppe Casciaro, Michele Palumbo, suo parente, Achille De Lucrezi, raffinato cartapestaio.
Al Castello Volante di Corigliano d’Otranto una sala è riservata ad una mostra permanente del suo archivio. Da dove nasce questo progetto espositivo?
La mostra di Corigliano è il risultato di un percorso di valorizzazione dell’archivio Palumbo nell’ambito del progetto Visioni del Sud, che ha visto la collaborazione della Provincia di Lecce, l’Istituto di Culture Meditterranee e Big Sur, Cinema del Reale, Officina Visioni. La mostra è stata allestita inizialmente, nel 2017, presso la torre matta di Otranto per poi approdare, nel 2018, al Museo delle Civiltà di Roma, grazie all’impegno dell’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia e del Museo delle Civiltà.
Infine la mostra ha terminato il suo percorso al Castello Volante di Corigliano d’Otranto, dove, penso, l’allestimento rimarrà in maniera permanente.
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