Viene istintivo supporre che il processo di ideazione e installazione di una mostra del calibro di Visual Spaces of Today richieda il prolungato lavoro di un esercito di operatori. Urs Stahel, curatore dell’esposizione presso la Fondazione MAST di Bologna, ci ha raccontato in un’intervista il backstage del suo lavoro al fianco di Andreas Gursky, un artista d’eccezione su tutti i fronti. Ecco il resoconto della loro produttiva collaborazione e di un allestimento sorprendentemente rapido.
Com’è nata l’idea di esporre Visual Spaces of Today presso la Fondazione MAST?
Solitamente si comincia decidendo se esporre una monografica, una collettiva o una mostra tematica. Le tre opzioni richiedono procedure di preparazione nettamente diverse.
Questa volta si è trattato di un caso speciale per via di una concomitanza di celebrazioni: nel 2023 cade il centenario della G.D – azienda leader nella produzione di macchinari impiegati nel settore del packaging – insieme al decennale della Fondazione MAST, che con G.D condivide la filosofia di valorizzazione della cultura del lavoro. Isabella Seragnoli, uno dei soci fondatori del MAST, mi ha chiesto di organizzare qualcosa di prestigioso per l’occasione e insieme abbiamo pensato ad Andreas Gursky.
Avevo conosciuto l’artista alla fine degli anni ’90 in occasione di una sua mostra alla quale avevamo lavorato insieme, così l’ho contattato invitandolo a visitare il MAST. Gli spazi espositivi della Fondazione sono ben diversi da quelli di un museo classico e Gursky li ha ritenuti da subito compatibili con le sue fotografie.
Dunque possiamo dire che Visual Spaces of Today si piazza tra una monografica e una mostra tematica?
Sì, esatto. È sicuramente una monografica, ma dal mio punto di vista funziona bene proprio in funzione di una coerenza tematica. Abbiamo selezionato dalla produzione di Gursky i lavori collegati agli argomenti solitamente trattati dal MAST: principalmente l’industria, la tecnologia e il lavoro, che poi abbiamo esteso all’economia, la finanza, l’industria del turismo e la scienza.
Il lavoro del fotografo, in generale, è perfettamente in linea con queste tematiche, quindi si è creato un percorso espositivo fluido in cui si passa con coerenza da una fotografia alla successiva, in un perfetto dialogo con l’ambiente che ospita la mostra.
Avevate già pianificato la disposizione delle stampe prima che raggiungessero la Galleria?
Dopo la sua visita al MAST Gursky aveva deciso di non esporre più di sedici stampe di grande formato. Di contro, gli ho risposto che io avevo pensato a trenta e si è innescato un intenso e costruttivo confronto sul numero effettivo di immagini che avrebbe dovuto portare a Bologna. Sono abituato a buttar giù dei bozzetti corrispondenti alla mia previsualizzazione della mostra, ma quando ho mostrato a Gursky i miei schizzi di Visual Spaces of Today ho avuto la sensazione che non condividesse a pieno la mia visione. Alla fine ci siamo accordati quasi esattamente sulla media aritmetica, optando per ventiquattro grandi fotografie.
Abbiamo aggiunto un paio di immagini più piccole per evitare il rischio di staticità: la variazione del formato stimola l’osservatore a muoversi ulteriormente nello spazio, inducendolo ad avvicinarsi alle stampe più piccole, ad allontanarsi per apprezzare le fotografie più grandi per poi riavvicinarsi a quest’ultime per scrutarne i dettagli. Gursky è stato entusiasta della scelta di esporre tre o quattro immagini in ogni sala.
Qualcosa è cambiato in corso d’opera?
Il camion ha portato le stampe che abbiamo collocato lungo il percorso espositivo secondo i miei bozzetti e devo dire che è stato un buon punto di partenza. Successivamente abbiamo apportato delle modifiche insieme, ma la procedura di allestimento è stata sorprendentemente rapida. Lo stesso Gursky mi ha confessato di non essere mai riuscito ad appendere una fotografia il primo giorno di allestimento in tutta la sua carriera. Nel nostro caso in quel primo giorno abbiamo appeso un terzo dell’intera mostra. Abbiamo montato tutte le fotografie in tre giorni esatti, avvalendoci di due squadre, ciascuna composta da tre persone. C’erano sempre almeno tre persone ad appendere ogni immagine e tutto è stato molto scorrevole, ha funzionato alla grande.
La mostra si compone prevalentemente di grandi formati. Questa peculiarità ha richiesto lavoro extra?
Al contrario, su molti fronti è stato più semplice del solito. Nonostante il grande formato delle sue opere Andreas Gursky conserva tutta la sua produzione fotografica nell’archivio climatizzato sottostante il suo studio a Düsseldorf. Fatta eccezione per una fotografia, che abbiamo dovuto far trasportare dal Burda Museum di Baden-Baden a Düsseldorf, siamo riusciti a far arrivare a Bologna tutte le opere con un unico grande trasporto a bordo di un camion enorme. Solitamente è necessaria una lunga pratica di richieste a diversi musei per ottenere ventiquattro immagini di un artista famoso e occorre organizzare più trasporti da varie capitali in giro per il mondo. Un artista che conserva l’intero archivio nel proprio studio, in formato da esposizione, è una vera rarità.
L’unica accortezza ha riguardato l’ingresso delle opere al MAST: le dimensioni e il peso delle stampe più grandi della mostra non ne consentivano l’accesso agli spazi espositivi tramite le porte d’accesso ordinarie. È stato necessario utilizzare una gru per collocarle sul livello più alto dell’edificio, dotato di un ingresso speciale studiato appositamente per situazioni di questo tipo.
Quanto misura, approssimativamente, la stampa più grande in mostra?
Circa 5 metri sul lato lungo. Si tratta dell’immagine della Formula1, F1 Boxenstopp I, che potrebbe non sembrare così grande per via del formato panoramico. Non è altissima ma è sicuramente la più lunga. La maggior parte delle fotografie esposte ha un lato lungo compreso tra i 2,9 e i 3 metri.
In un video riprodotto in occasione della conferenza stampa di anteprima della mostra si vedono le varie fasi di allestimento. Tra le persone coinvolte compare una donna che osserva le fotografie da vicino con una torcia. Cosa controlla?
Controlla le condizioni della superficie delle opere e si accerta che il plexiglass che le protegge sia perfettamente integro. Questa operazione viene ripetuta più volte: quando le opere lasciano lo studio, quando raggiungono il museo, quando stanno per ripartire e quando tornano a Düsseldorf.
Quante persone sono state coinvolte nell’intero processo di allestimento?
Anche su questo fronte Andreas Gursky rappresenta un’eccezione. La sua squadra è composta da tre o quattro persone, compresi il suo assistente tecnico, la sua assistente personale e una persona che riproduce le sue immagini quando un collezionista segnala qualche problema. Conosco artisti che si avvalgono di cinquanta, persino ottanta collaboratori, ma Gursky è diverso. Lavora spesso da solo e i pochi membri del suo staff non lo raggiungono tutti i giorni in studio.
Per quanto riguarda il MAST, una persona ha gestito l’intera organizzazione della mostra, compresa la grafica – a mio avviso davvero ben fatta – posta sulla facciata all’ingresso dell’edificio: una stampa che riproduce la fotografia di Gursky inititolata Salinas. Un’altra persona si è occupata dei testi della mostra e del catalogo, nonché di tutte le traduzioni. La squadra di allestimento addetta all’installazione delle opere era composta da tre persone svizzere e tre italiane. C’era un responsabile della logistica, e dunque della gestione dei documenti per il trasporto e, infine, la donna addetta al controllo della superficie del plexiglass che protegge le opere, e l’ufficio stampa che si occupa della distribuzione degli inviti. Insomma, non più di venti persone in tutto.
Una volta conclusa la mostra le immagini tornano a Düsseldorf così come sono esposte?
Esattamente così, protette da plexiglass e incorniciate. L’autore le conserva nell’archivio di cui parlavamo all’inizio, con un sistema di cassetti verticali distribuiti lungo una parete di circa venti metri. Le foto sono montate tra due strati di plexiglass e, per l’esattezza, incollate a queste due superfici in modo da aderire perfettamente ed evitare spazi vuoti.
Gursky è particolarmente attento alle tematiche ambientali. Questa sensibilità si è concretizzata in qualche sua accortezza green durante la realizzazione di questa mostra?
L’aspetto più green di Andreas Gursky risiede nel fatto che è un artista perfettamente organizzato e che, come dicevamo, conserva tutte le sue opere nel suo studio. Questo gli consente di ridurre drasticamente i trasporti. Immaginiamo, ad esempio, una mostra di Andy Warhol: la logistica può richiedere tre o quattro milioni di euro. Il fatto che l’intero archivio di un fotografo risieda in un unico luogo rende l’organizzazione di una mostra dieci volte più economica, ma soprattutto dieci volte più ecosostenibile.
A questo aggiungiamo il fatto che stiamo parlando di stampe che durano almeno vent’anni e che possono essere esposte più e più volte in diverse occasioni espositive, riducendo all’osso sprechi e consumi. Non so dire se Gursky abbia fatto queste scelte perché spinto dal suo senso di responsabilità nei confronti dell’ambiente, ma di certo la sua organizzazione è un valore aggiunto.
Possiamo dire che Gursky è uno dei rari esempi di artista sofisticato e popolare al tempo stesso?
Mi piace questa definizione, perché Gursky è decisamente sofisticato. Basti considerare che non ha mai prodotto più di cinque immagini l’anno, e che dedica mesi e mesi di riflessione e attenzione a ogni fotografia. Al contempo, però, è accessibile a chiunque. Anche chi non è in grado di comprendere ogni singola parte delle sue immagini ne è attratto. A volte da curatore, ma anche da semplice essere umano, trovo che l’arte contemporanea sia eccessivamente eccentrica, troppo lontana dal pubblico, destinata all’1% della popolazione, mentre il resto del mondo davanti a un’opera non fa che domandarsi: ‘Cosa sto guardando?’. Adoro i lavoro capaci di essere sofisticati ma anche popolari, sono quelli che possono essere apprezzati da un pubblico più ampio.