I colori delle immagini di Abayomi Shogbade sono accesi, vibranti, espressioni della forza dei rituali dell’Africa, delle sue tradizioni orali. Tutto ha un significato nei ritratti del fotografo nigeriano: i dettagli della messa in scena, le pose dei suoi soggetti, gli indumenti, le ambientazioni, tesi a creare delle narrazioni che possano tramandare una cultura che finora è stata fin troppo oscurata dalla dominazione occidentale. Nelle sue fotografie Abayomi rivive la sua infanzia, i suoi ricordi, gli insegnamenti che l’hanno reso adulto. Abbiamo chiacchierato con lui per farci raccontare le storie che stanno alla base dei suoi progetti.
Qual è il pensiero che congiunge l’intera tua produzione fotografica?
La mia fotografia affonda sempre le sue radici nella memoria, nella cultura e nell’ambiente che mi ha plasmato da bambino. Crescendo in Nigeria, sono stato circondato da tradizioni, storie e modi di vedere il mondo Yoruba che continuano a definire il mio linguaggio artistico ancora oggi. Ecco perché troverete sempre elementi dell’identità africana nel mio lavoro, che si tratti della bellezza della pelle nera, della moda e dello stile, o della spiritualità e dei rituali. Per me, la fotografia è più di una semplice estetica, è un modo di raccontare storie.
Ritorno spesso ai ricordi della mia infanzia e alle filosofie culturali, intrecciandoli in narrazioni visive che esplorano l’identità, la spiritualità e l’ambiente. Progetti come Whispers of the Tides o Ata Ire lo dimostrano, perché attingono al mio background culturale e trasformano tradizioni orali o esperienze vissute in immagini che le persone possono vedere e sentire. Il mio lavoro è sempre ‘mio’ e ‘nostro’, nasce dalla mia esperienza, ma appartiene anche a un’identità africana più ampia, viva, in evoluzione e profondamente spirituale.
La tua produzione è connotata, come ci dicevi, da una profonda riflessione sull’identità africana. Hai iniziato a fotografare già con questa idea in mente?
Sì, assolutamente. Fin dall’inizio, l’identità africana è stata centrale nel mio lavoro. Quando ho preso in mano una macchina fotografica per la prima volta, più di dieci anni fa, sapevo che quello che volevo fare era più che scattare semplicemente immagini. Volevo creare fotografie che riflettessero chi siamo come africani, in cosa crediamo e come esistiamo nel mondo. Per me, questo ha sempre significato enfatizzare la ricchezza della pelle nera, la forza delle tradizioni africane e la spiritualità insita nella vita quotidiana.
In Shades of Sovereignty, ad esempio, mi sono concentrato sulla bellezza delle tonalità della pelle nera, trattandole non semplicemente come attributi fisici, ma come emblemi di dignità e sovranità. Volevo che quei ritratti parlassero di identità e presenza, ma anche di resistenza alla cancellazione.
Come il tuo vissuto personale si è inserito nella creazione della tua estetica visiva?
Crescendo, ho osservato come la cultura e la spiritualità plasmassero la vita delle persone non solo nei rituali, ma anche nei gesti quotidiani. Questi momenti mi sono rimasti impressi e ora trovano spazio nelle mie immagini. Prendiamo, ad esempio, la filosofia Yoruba sulle spezie. In Ata Ire ho esplorato questa idea culturale secondo cui le spezie non riguardano solo il cibo, ma rafforzano lo spirito. In Yoruba c’è un detto: ‘Emi ti o je ata, emi yepere mi’ – ‘uno spirito che non mangia spezie è debole’.
Non è solo un proverbio della mia infanzia, ma una pratica vissuta. Ogni volta che mi ammalavo, infatti, mia madre cucinava un pasto piccante, dicendo: ‘Lascia che io condisca il tuo spirito prima di qualsiasi altra medicina’. Questo mi è rimasto impresso e l’ho trasformato in arte. In Ata Ire ho rappresentato le donne Yoruba come radici delle piante, custodi di questa conoscenza culturale. Le loro acconciature sono diventate rami e i peperoni frutti, simboli della fortuna che portano con sé per la comunità. Quella serie non parlava solo di cibo o memoria, ma di come le nostre madri e donne trasmettano le tradizioni culturali di generazione in generazione.
In gran parte della tua produzione il colore aiuta a esaltare la sacralità e ritualità dell’identità africana che tu metti in scena, ma compaiono anche immagini in bianco e nero. Che apporto dà il bianco e nero al significato del tuo lavoro?
Il colore è molto importante nella mia fotografia. Lo uso non solo per il piacere visivo, ma come parte della storia. In Ata Ire il colore porta con sé un simbolismo culturale: il rosso del peperone e la ricchezza della pelle nera. Questi colori accentuano le qualità spirituali ed estetiche delle fotografie, rendendole più vive e ricche di significato.
Ma ci sono momenti in cui trovo il colore distraente. È allora che mi rivolgo al bianco e nero. Nel mio progetto Kinship, ho deliberatamente eliminato il colore per approfondire l’atmosfera di mortalità, saggezza ancestrale e unità uomo-animale. Il bianco e nero aggiunge peso, atemporalità e concentrazione. Rimuove il rumore e permette all’osservatore di concentrarsi sulla forma, sul simbolismo e sull’emozione.
Qual è il rapporto con i tuoi soggetti? Quanto la loro messa in scena è guidata dai tuoi suggerimenti e quanto dal loro istinto?
Il mio rapporto con i soggetti è sempre collaborativo e rispettoso. Mi assicuro di condividere la storia con loro prima di fotografare, in modo che comprendano la visione alla base del progetto. In questo modo, non si limitano a posare, ma diventano parte di una narrazione. Quando scelgo i modelli lo faccio con attenzione. A volte lavoro con modelli professionisti che scopro sui social media, altre volte con amici che ritengo incarnino lo spirito del progetto. Per me, non è solo una questione di apparenza, ma di presenza, di riuscire a dirigerli e posizionarli per dare vita alla storia. Di solito scelgo io l’abbigliamento, gli oggetti di scena e le pose, ma lascio anche spazio all’istinto del soggetto. Questo equilibrio mantiene l’opera autentica. L’immagine è la mia visione, ma la loro presenza le dà vita.
Ci racconti nello specifico la produzione del lavoro Whispers of the Tide, il suo significato concettuale, ma anche come, nella praticità, hai lavorato con il tuo soggetto, con le luci, l’ambientazione e la post produzione?
Whispers of the Tides è nato dalla mia curiosità infantile e dalla mia memoria culturale. Nelle tradizioni africane oceani, fiumi, montagne e colline sono considerati luoghi sacri dove le preghiere vengono ascoltate più rapidamente. Le persone spesso testimoniano di sentirsi più vicine a Dio in questi ambienti. Questa convinzione mi affascinava da bambino ed è rimasta impressa nella mia immaginazione. Per incarnare questo concetto nella fotografia, ho utilizzato un’autentica maschera africana. Nelle tradizioni Yoruba, le maschere rappresentano gli spiriti: quando qualcuno indossa una maschera non è più sé stesso, ma si trasforma in un essere spirituale. In Whispers of the Tides, Eric, il soggetto della serie, è un ricercatore quando è senza maschera e diventa un messaggero degli spiriti quando la indossa.
Questa dualità esprime il dialogo tra l’umano e il divino. Lavorare con lui, che ho conosciuto per caso, è stata una benedizione. Fin dal momento in cui ci siamo incontrati ha compreso il progetto e si è impegnato pienamente. Il giorno delle riprese ci siamo recati a Three Cliffs Bay, un luogo che per me era già carico di significato. Le sue scogliere, i suoi cieli e le sue acque hanno creato un palcoscenico naturale per la storia. Eric è stato paziente, coraggioso e generoso; si è seduto nell’acqua, si è mosso con determinazione e si è lasciato andare nell’incarnare lo spirito che avevo immaginato. Tecnicamente, cerco di fare il più possibile sul set. Preferisco catturare l’atmosfera direttamente attraverso la luce naturale e una regia attenta, piuttosto che affidarmi pesantemente alla post-produzione, attraverso cui, in Whispers of the Tides, ho aggiunto solo piccoli dettagli per bilanciare i toni, in particolare la tavolozza blu-verde che rappresenta l’acqua, la natura e la spiritualità.
Chi ti ha influenzato maggiormente nel tuo lavoro?
Quando ho iniziato la mia carriera, più di dieci anni fa, ho osservato attentamente le opere di artisti come Adrian McDonald (Lexonart) e Àsìkò. La loro capacità di fondere cultura, simbolismo e narrazione mi ha profondamente ispirato. Ma le mie influenze vanno oltre la fotografia, visto che sono stato plasmato anche dalle tradizioni orali Yoruba, dai proverbi e dagli insegnamenti quotidiani di mia madre. Queste lezioni culturali, come il significato delle spezie o il potere del mascheramento, sono influenti quanto quelle di qualsiasi artista visivo. Anche la musica e la letteratura giocano un ruolo: ritmi, testi e storie riecheggiano spesso nella mia mente quando creo immagini. Col tempo, ho trasformato queste influenze nel mio linguaggio, radicato nell’identità, nella memoria e nella spiritualità africana.
Molti sono i fotografi che, nella contemporaneità, lavorano con progetti sull’identità nera per cercare di sanare dei buchi storici, prodotti, nel tempo, dalla cultura occidentale del “dominatore bianco”. Anche il tuo lavoro ha questa intenzione?
Sì, il mio lavoro fa parte di questo processo di guarigione. Considero la mia fotografia un modo per affermare l’identità, celebrare la cultura e contrastare le cancellature del dominio occidentale. Enfatizzando la bellezza della pelle nera, delle tradizioni Yoruba e della spiritualità africana, il mio obiettivo è creare un archivio visivo che mostri chi siamo, non attraverso la lente della colonizzazione, ma attraverso le nostre storie. Per questo i miei progetti sono spesso radicati sia nella memoria personale che nel simbolismo culturale. Parlano a me come individuo, ma anche a un’identità collettiva che è sopravvissuta e continua a prosperare.
Ulteriori fotografie e informazioni sul lavoro di Abayomi Shogbade sono disponibili sul sito del fotografo, abayomishogbade.com.
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