Oshevensk, ai confini del tempo di Francesco Comello, attualmente in esposizione presso il Festival della Fotografia Etica di Lodi, racconta di una terra cupa e apparentemente inospitale. Le oscurità sono profonde nella regione di Arkhangelsk, nella parte nord-occidentale della Russia, e Comello le racconta al suo pubblico con dei bianchi e neri dai contrasti onirici ed evocativi.
Quella di Comello è la storia di un territorio che nel tempo si è spopolato, piano piano. In questo territorio, le persone che resistono all’ambiente disagevole sono compattate insieme da un profondo senso di comunità e di appartenenza. È questo che il fotografo italiano ha cercato di documentare con uno stile poco reportagistico e molto poetico. Ne abbiamo parlato direttamente con lui.
Per il progetto Oshevensk, ai confini del tempo, dal 2008 ad oggi, hai intrapreso più viaggi. Come hai conosciuto questa realtà e come hai deciso di prendere in mano la macchina fotografica per raccontarla?
Questo progetto segna l’inizio del mio percorso fotografico, il momento in cui ho preso consapevolezza di ciò che volevo fare con la fotografia. Prima di allora avevo esplorato la fotografia di strada, ma sentivo che era giunto il momento di andare oltre e raccontare storie più profonde e articolate. Allo stesso tempo, avvertivo un forte desiderio di viaggiare ed esplorare nuovi mondi.
Nel 2007, in quello che considero un incontro fortuito, o forse destinato, ho conosciuto e stretto amicizia con una scultrice russa che stava attraversando un cambiamento radicale nella sua vita. Era in procinto di lasciare San Pietroburgo, dove viveva, per rifugiarsi in un piccolo e sperduto villaggio del nord. La sua storia mi ha affascinato, così come l’idea di scoprire questi luoghi lontani e provare a catturarne le atmosfere.
Nel 2008 ho intrapreso il mio primo viaggio a Oshevensk e, da quel momento ho sentito il bisogno di tornare più volte. Nei tre anni successivi ho fatto diversi viaggi, visitando il villaggio in periodi differenti per documentare il fluire della vita, anche a seconda del cambiamento delle stagioni. Il mio legame con Oshevensk è cresciuto nel tempo, tanto che sono tornato ancora nel 2019 e di nuovo nel 2023. Credo che solo frequentando un luogo a lungo termine si possa davvero tentare di catturarne l’essenza.
Lo stile del progetto è uno stile uniforme, cupo, ma profondamente umano. Cosa ha apportato alla tua narrazione il fatto di documentare Oshevensk da più di quindici anni?
La lunga durata di questo progetto mi ha permesso di stabilire relazioni autentiche con le persone, di conoscere le loro storie e di osservare come la vita evolve nel tempo. Ho potuto esplorare le variazioni delle stagioni e il loro influsso sulla vita quotidiana della comunità. Il mio obiettivo è stato quello di creare un archivio visivo che fosse non solo documentario, ma soprattutto poetico, in grado di evocare emozioni e risonanze, coniugando la forza espressiva delle immagini con una narrazione quasi letteraria.
Qualcuno ha detto del mio lavoro: “Quando il reportage diventa romanzo”. La scelta di uno stile uniforme e cupo è stata una decisione consapevole per sottolineare l’intensità delle esperienze umane che ho osservato, e per trasmettere la bellezza e, al tempo stesso, la fragilità della vita in questo angolo remoto del mondo.
La prima volta che sei arrivato in paese come ti sei mosso per riuscire a cogliere il senso profondo del territorio e per entrare in contatto con le persone?
Non è stato affatto facile. Quando sono arrivato ad Oshevensk per la prima volta, il luogo non era frequentato da turisti e ho immediatamente percepito una certa diffidenza da parte della comunità, che, vivendo isolata, era piuttosto chiusa verso gli stranieri. Ho fatto grande affidamento su Nadezhda, la mia amica russa, che ha svolto un ruolo fondamentale come guida e punto di contatto. Grazie a lei, ho potuto iniziare a costruire relazioni e a farmi accettare.
Ho imparato ad ascoltare e osservare con attenzione, adottando un atteggiamento di umiltà e rispetto. In definitiva, il mio spirito di adattamento e la volontà di entrare in contatto con le persone hanno giocato un ruolo determinante nel mio viaggio. Solo così ho potuto cogliere il senso profondo del territorio e delle sue tradizioni, aprendo la strada a una narrazione più autentica e significativa.
C’è qualche storia, qualche aneddoto, che ti piacerebbe raccontare nello specifico?
Vorrei raccontarti un episodio accaduto durante il mio secondo viaggio a Oshevensk, il 19 gennaio 2019, giorno in cui, in tutta la Russia, si celebra l’Epifania, nota anche come il ‘Battesimo di Cristo’. Durante questa festività religiosa si pratica un rituale chiamato ‘Kreschenie’, ovvero l’immersione nell’acqua gelata, che simboleggia il battesimo di Gesù nel fiume Giordano.
Quella mattina, dopo la messa, i fedeli si sono recati al fiume Churiega, che costeggia il villaggio, dove era stata intagliata una croce nel ghiaccio. Nonostante le temperature proibitive, molti si sono immersi nell’acqua benedetta come atto di devozione, fede e purificazione.
Nonostante fossi stato invitato a partecipare, non avevo trovato il coraggio di affrontare un’esperienza così estrema. Quel giorno, infatti, la temperatura era di trenta gradi sotto zero. Ma verso sera, mi trovai a dover accompagnare un giovane del villaggio che voleva immergersi. Solo allora, in modo impulsivo e forse un po’ incosciente, decisi di unirmi a lui e fare il bagno. Fu un gesto che, oltre a essere una sfida personale, mi avvicinò profondamente alla comunità. La mia partecipazione a questo rituale così significativo mi fece guadagnare rispetto e stima da parte degli abitanti del villaggio. È un ricordo che porto con me, non solo per l’atto in sé, ma per il legame che si creò con quelle persone e con le tradizioni che cercavo di raccontare attraverso le mie fotografie.
Con il tuo modo di fotografare cerchi di cogliere il concetto di comunità, di coesione umana nei riti, nei giochi, nelle tradizioni. L’uomo non è ritratto per la sua storia personale, ma per il suo essere parte di qualcosa di più grande. Lo si avverte dal taglio delle tue fotografie, che incamerano una realtà in movimento e difficilmente il volto dell’uomo compare per la sua unicità.
Per me, la fotografia diventa il teatro della vita. Non si tratta solo di descrivere gesti quotidiani intrisi di tradizioni e valori antichi, ma di trasmettere le sensazioni che questi suscitano. È un’umanità che spesso affronta un quotidiano durissimo, osservata tra le pieghe sottili dello spazio e del tempo, in una sospensione che permette una narrazione dal linguaggio onirico e visionario. Nella mia ricerca fotografica esploro mondi alternativi e cerco di raccontarli, nella speranza che esista un ‘altrove’ che valga ancora la pena di scoprire.
Comunico tutto questo senza fornire verità scontate o omologate, ma invitando il lettore a entrare in un universo a lui sconosciuto. Nelle mie foto si entra in silenzio, per cercare di percepire atmosfere avvolgenti, a volte misteriose. Non si ricevono risposte definitive, perché io non sono in grado di darle. Le mie immagini lasciano spazio all’immaginazione, senza imporre interpretazioni.
La composizione delle tue immagini non sembra seguire una logica estetica, sembra più seguire la rappresentazione dell’istante, del momento…
Le immagini che produco nascono da una presa diretta della realtà che mi scorre davanti, senza quasi mai una premeditazione. Attendo quel momento magico in cui qualcosa di significativo sta per accadere e lascio che l’istinto faccia la sua parte. Tuttavia, questo non esclude l’importanza dell’estetica, che considero la base per un’immagine. Se mancano chiarezza, composizione ed equilibrio, la fotografia diventa di difficile lettura e non riesce a comunicare.
Il bianco e nero che contributo ha dato alla tua storia?
Il bianco e nero è il linguaggio che ho scelto per tutti i miei progetti fotografici. A differenza del colore, che tende ad essere più descrittivo e legato alla realtà visibile, il bianco e nero ha una qualità più lirica ed astratta. Nel caso di Oshevensk, raccontare quel mondo a colori avrebbe compromesso gran parte delle sue atmosfere e quel senso di sospensione temporale che invece il bianco e nero riesce a catturare.
La sua capacità di trascendere la mera descrizione visiva mi permette di esplorare una dimensione più poetica, dove ogni ombra e ogni contrasto raccontano qualcosa che va oltre ciò che è visibile. Questo approccio aggiunge profondità e intensità alla storia che voglio raccontare, trasformando la realtà in un’esperienza visiva più intima e universale.
Per un lavoro del genere devi avere una strumentazione agile. Che cosa usi?
Nel corso degli anni la mia attrezzatura si è notevolmente alleggerita rispetto ai miei esordi. Inizialmente usavo una reflex insieme a tre pesanti obiettivi zoom, un kit piuttosto ingombrante e poco pratico per viaggiare e lavorare con agilità sul campo. Con l’avvento delle mirrorless, ho deciso di rinnovare completamente il mio corredo, optando per una ‘senzaspecchio’ Fujifilm e un unico obiettivo fisso, vale a dire un 23mm f/1.4, equivalente al classico 35mm.
Questa configurazione è leggera, discreta e molto versatile, perfetta per il genere di fotografia che pratico. Credo che sia fondamentale, soprattutto nel reportage, essere il più invisibili possibile, per non alterare la scena che si vuole catturare. L’uso di un’ottica fissa, che non ha variabili di inquadratura come lo zoom, mi permette di essere più reattivo e allo stesso tempo mi costringe ad essere empaticamente più dentro la scena.
Chi sono i tuoi riferimenti storici, fotograficamente parlando?
La mia formazione fotografica ha trovato ispirazione nei grandi maestri del bianco e nero, da Henri Cartier-Bresson a Josef Koudelka. Tuttavia, anche alcuni autori contemporanei hanno giocato un ruolo cruciale nel mio percorso, soprattutto grazie all’opportunità di partecipare ai loro workshop. Uno di questi è Ernesto Bazan, di cui ho amato particolarmente il lavoro fatto a Cuba, che mi ha stimolato a partire per l’isola e documentare, nel 2016, i funerali di Fidel Castro. Questo e un successivo viaggio mi hanno permesso di pubblicare il libro insieme alla coautrice Barbara Tutino, Yo soy Fidel.
Un altro riferimento importante è Francesco Zizola, con cui ho avuto il privilegio di fare un workshop e seguire un corso di post-produzione con Claudio Palmisano, cofondatore con Zizola del Centro Polifunzionale 10b Photography, dedicato alla fotografia professionale. Questa esperienza è stata fondamentale per la mia formazione nel lavoro di post-produzione del bianco e nero.
Infine, un altro fotografo che ha alimentato la mia passione è Nikos Economopoulos, membro della Magnum Photos. Ho avuto la fortuna di partecipare a un suo workshop a Istanbul, un’esperienza che ha arricchito ulteriormente la mia visione fotografica, permettendomi di comprendere che la fotografia può andare oltre la pura documentazione della realtà e trasformare l’ordinario in straordinario.
Francesco Comello. Oshevensk, ai confini del tempo
- Festival della Fotografia Etica di Lodi/15ª edizione
- Palazzo Barni, corso Vittorio Emanuele II, 17 – Lodi
- dal 28 settembre al 27 ottobre 2024
- sab-dom 9.30-20
- 19 euro per tutte le mostre del festival
- festivaldellafotografiaetica.it
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