Roma
Dal 6 dicembre 2023 al 24 marzo 2024
Per Lou Dematteis, fotografo californiano di origini italiane, l’Italia e la fotografia sono due pilastri esistenziali, due elementi che hanno definito la rotta della sua vita. Ancora prima che venisse in Italia per la prima volta, in età adulta, i racconti sul nostro Paese da parte dei nonni, arrivati in America dal Piemonte, animavano la sua fantasia e nutrivano la sua voglia di viaggiare per tornare alle origini, dove trovò anche lo stimolo per iniziare a fotografare. La mostra al Museo di Roma in Trastevere, A Journey Back, racconta, oltre ai suoi quattro viaggi fatti in Italia nel 1972, 1977, 1979, 1980, anche di come la conoscenza dell’Italia, la sua storia e la sua cultura, si siano indistricabilmente correlate all’evoluzione del suo pensiero fotografico. Ne abbiamo parlato direttamente con lui.
È il primo viaggio in Italia, nel 1972, che le dà lo stimolo a iniziare a fotografare, vero? Perché?
In realtà, sono venuto per la prima volta in Italia nel 1971 senza macchina fotografica. Crescendo, ho sempre avuto l’idea di venirci, ma i miei genitori non mi ci avevano mai portato. Una volta laureato finalmente l’ho fatto, sono partito e sono arrivato in Italia. Sono rimasto sbalordito da quello che ho visto. Tutta la bellezza dell’arte e dell’architettura, la gente e la bellezza della terra stessa. Qualcosa è scattato nella mia testa, una sorta di esplosione visiva, un raggio di luce. Quell’esperienza mi ha fatto davvero pensare alla vita in un modo diverso e ho deciso di prendere una macchina fotografica e iniziare a scattare fotografie. Poi, sono tornato in Italia nel 1972, questa volta con una macchina fotografica.
Cosa rappresenta per lei il linguaggio fotografico?
Racconto storie e uso il linguaggio della fotografia per farlo. La fotografia è un incredibile linguaggio universale. Supera tutti i confini perché non si basa su una lingua parlata o scritta.
Lei è cresciuto ascoltando le storie dei suoi nonni, che le raccontavano la loro vita in Italia e il loro viaggio verso l’America. Ora è lei a raccontare delle storie, attraverso le immagini. Cosa ha assorbito dai suoi nonni nell’arte del narrare?
Come uno di cinque fratelli e sorelle, di una famiglia italoamericana molto orgogliosa delle sue origini, sono cresciuto ascoltando le storie raccontate da e sugli immigrati di prima generazione. Mi piaceva ascoltare le storie sull’Italia e su com’era la vita per i miei nonni e la loro generazione quando sono arrivati in America. Le storie erano molto visive, personali, amorevoli, toccanti e molto percettive. Cerco di incorporare tutto questo nella mia narrazione.
La mostra racconta dei suoi quattro viaggi in Italia. Soprattutto dal viaggio del 1977, la sua fotografia si rende portavoce anche della realtà politica italiana. Qual è stata la sua evoluzione narrativa nell’arco di quegli anni, sia dal punto di vista estetico e compositivo, sia dei soggetti scelti?
Durante i sei mesi in cui sono stato in Italia nel 1972, ho iniziato a lavorare seriamente come fotografo documentarista. La mia idea era quella di vedere se avevo le capacità per guadagnarmi da vivere come fotografo professionista. Quando sono tornato negli Stati Uniti, all’inizio del 1973, ho iniziato a seguire corsi di fotografia e ho esteso il mio lavoro al fotogiornalismo. A San Francisco e in California ho iniziato a fotografare eventi di cronaca per giornali e riviste. In questo modo, la mia fotografia è diventata più coinvolta rispetto a ciò che stava accadendo politicamente e socialmente, in California e negli Stati Uniti. Così, quando tornai in Italia nel 1977, trattai una gamma più ampia di argomenti rispetto al mio primo viaggio.
Ho iniziato a fotografare soggetti come i lavoratori, i sindacati, le manifestazioni, i movimenti sociali e la vita quotidiana italiana. L’Italia del 1977, molto calda socialmente e politicamente, mi ricordava gli Stati Uniti degli anni Sessanta, quando ero un giovane che andava al college: l’opposizione alla guerra del Vietnam, la nascita della controcultura, gli omicidi di leader e le lotte politiche e sociali. Dal punto di vista estetico e compositivo, non ci sono stati molti cambiamenti rispetto al 1972. Sono stato molto influenzato dal grande fotografo francese Henri Cartier-Bresson: cerco sempre di cogliere il momento decisivo in ogni situazione, quel secondo, o meno, che cattura il momento più drammatico in ogni situazione.
Le fotografie dei suoi viaggi in Italia hanno, nel loro complesso, il valore di documenti affettivi. Partendo dalle immagini di Montezemolo, in Piemonte, dove c’è la sua casa di famiglia, la mostra appare come un grande album di famiglia…
Penso che abbia questo aspetto in virtù del fatto che, in Italia, stavo cercando di trovare le mie radici personali e familiari. Sono partito fotografando i miei parenti italiani e, in modo più completo e complesso, volevo cogliere l’Italia e la sua gente come la mia famiglia allargata. Potremmo anche fare un ulteriore passo avanti dicendo che la mia documentazione era un’estensione della mostra e del libro The Family of Man, curato da Edward Steichen nel 1955.
Il suo sguardo sul panorama italiano sembra quello di un fotoreporter italiano, facendo trapelare uno stato di appartenenza e di partecipazione. Perché le vicende della politica italiana di quegli anni, dall’uccisione di Giorgiana Masi a quella di Aldo Moro, l’hanno così particolarmente coinvolto?
Come dicevo prima, quello che stava succedendo in Italia negli anni Settanta mi ricordava molto quello che era successo e quello che avevo vissuto negli Stati Uniti negli anni Sessanta. Durante gli anni Sessanta gli americani hanno sofferto per gli omicidi di John Kennedy, Martin Luther King, Robert Kennedy e Malcom X, oltre all’uccisione di quattro studenti alla Kent State. In Italia, invece, ci sono stati gli omicidi di Giorgiana Masi e Aldo Moro, che mi hanno ricordato le morti che avevo vissuto dieci anni prima. Ma la mia posizione in Italia non era partecipativa, in me non c’era un senso di appartenenza, semplicemente il mio sguardo era quello di un osservatore. Tuttavia, a causa della mia educazione italoamericana e delle mie esperienze negli anni Sessanta in America, le mie osservazioni e documentazioni dell’Italia negli anni Settanta provenivano da una prospettiva unica e molto personale, che si è connessa molto profondamente con quella di molti italiani che hanno visto le foto.
Le immagini in mostra si alternano a numerosi pannelli con le poesie di Lawrence Ferlinghetti. Perché? Cosa ricollega le sue fotografie al poeta americano, di origini italiane?
Sono cresciuto sentendo parlare dell’Italia, ma non ci sono mai stato da bambino, ci sono venuto solo dopo essere cresciuto. Per questo ho intitolato la mia mostra Un viaggio di ritorno. Da bambino l’Italia la vivevo solo nella mia mente. Lawrence Ferlinghetti ha avuto la mia stessa esperienza: suo padre era italiano, ma non lo conobbe mai perché morì quando Lawrence aveva un anno. Come me, era in contatto con le sue origini italiane, ma non era mai venuto in Italia fino a quando non è diventato adulto. Ha scritto molte poesie e prose sul vostro Paese, sulla sua cultura, sulla sua politica e sulla sua gente. Sia io che lui abbiamo intrapreso viaggi simili, e anche esperienze simili per realizzare l’idea di fare quel viaggio. Penso che sia questo il motivo per cui le mie fotografie e le sue parole funzionano così bene insieme.
Lou Dematteis. A Journey Back
- A cura di Claudio Domini e Paolo Pisanelli
- Museo di Roma in Trastevere, piazza di S. Egidio, 1/b – Roma
- dal 6 dicembre 2023 al 24 marzo 2024
- martedì-domenica 10-20. Lunedì chiuso
- 24 e 31 dicembre 10-14
- intero 8,50 euro, ridotto 7,50 euro
- museodiromaintrastevere.it