Da alcuni anni, ogni anno, Anaïs Tondeur produce un’immagine nuova del suo erbario, Chernobyl Herbarium, vero e proprio atlante delle piante radioattive di Chernobyl. Dal dialogo della fotografa con il filosofo Michael Marder, che si è occupato della produzione testuale del progetto, è nata una profonda analisi, visiva e filosofica, del rapporto dell’uomo con la natura e il mondo, ma anche della natura stessa della rappresentazione di questo concetto.
Abbiamo intervistato la fotografa per farci raccontare origini e sviluppo di questo lavoro a quattro mani.
Le immagini di Chernobyl Herbarium sono dei rayogrammi. Come li produci?
Le immagini di questa serie sono fotografie a contatto create con le piante che crescono nella zona di alienazione di Chernobyl. Ogni anno, posiziono una di esse su un pezzo di superficie sensibile alla luce. La reazione tra la carta, la radioattività contenuta nella pianta e la luce, fa sì che l’impronta della sagoma della pianta appaia sulla superficie della carta. Il cesio-137 e lo stronzio-90 che innervano il corpo della pianta contribuiscono così alla creazione della sua traccia fotografica sulla lastra fotosensibile. Per questo progetto in corso d’opera, attingo alla fragilità degli inizi della fotografia, in particolare della fotografia a contatto, che è stata fin dall’inizio associata alla vita vegetale, come nel caso del lavoro sviluppato da Anna Atkins: The British Algae: Cyanotype Impressions (1843 e 1850) o più tardi Cyanotypes of British and Foreign Ferns (1853). Il procedimento che utilizzo si rifà anche ai rayogrammi introdotti negli anni Venti da Man Ray e László Moholy-Nagy, che consistono in stampe fotografiche realizzate posizionando oggetti su carta fotografica ed esponendoli alla luce.
Mi sono rivolta a questo processo ispirata anche dalle tracce tangibili dell’esplosione atomica sui muri di Hiroshima e Nagasaki. Questi rayogrammi viventi si trovano nella prefazione di Georges Didi-Huberman all’opera dell’astronomo Camille Flammarion, dedicata alle immagini dei fulmini. In essa, il filosofo e storico dell’arte specula sull’origine della follia del pilota che ha sganciato la bomba atomica su Hiroshima. Nella sua ipotesi, il pilota è impazzito non per le conseguenze del suo gesto – la trasformazione in cenere di 140.000 vite umane – ma per l’incontro con un’immagine: quella della distruzione stessa, generata dal lampo dell’esplosione, che cattura le tracce di chi è stato ridotto in polvere.
Mi ha colpito in particolare uno di questi fotogrammi viventi, che mostra la traccia di un’anziana donna che sale dei gradini col suo bastone da passeggio, a Hiroshima. Il riferimento a questo tipo di impronta colloca l’esposizione dell’immagine tra l’atto di distruzione e l’atto di rivelazione. I rayogrammi di Chernobyl Herbarium si trovano nella stessa ambivalenza. Naturalmente, queste stampe non riproducono la violenza di Hiroshima, Nagasaki o persino Chernobyl. Non cerco una sorta di estetica della violenza, piuttosto uno spazio d’incontro con il corpo di queste piante irradiate, nonché una forma di solidarietà attraverso la compassione, la riparazione e la consolazione.
Il progetto Chernobyl Erbarium vede il dialogo delle tue immagini con i testi del filosofo Michael Marder. Come avete congegnato il loro equilibrio?
La nostra collaborazione è iniziata nel 2015. Michael Marder, come descrive egli stesso, si è imbattuto nella prima serie di rayogrammi mentre rifletteva sul disastro nucleare e sulla sua personale relazione con esso, soprattutto perché era stato direttamente esposto al fallout radioattivo al momento dell’incidente nucleare. Nel “frammento 32” intitolato Un treno per Chernobyl. Replay scrive: “Intuii subito che le mie inquiete elucubrazioni potevano dialogare con queste inquietanti tracce di piante traumatizzate. Era come se Anaïs mi presentasse uno specchio, in cui mi vedevo riflesso non più in una forma umana ma come una vita, o semplicemente una superficie sensibile, esposta agli effetti radioattivi senza volerlo o averne coscienza”. Da allora, abbiamo sviluppato una relazione con le piante della zona di alienazione, prendendoci cura di loro e imparando da loro. Ogni anno ci riuniamo intorno a una di loro per comporre, in un gesto collettivo tra specie diverse, un nuovo frammento visivo o testuale. La forma del “frammento”, con cui è strutturato il progetto, è per noi un modo per raccoglierci e allo stesso tempo avvicinarci all’“esplosione di coscienza” che l’esplosione di Chernobyl rappresenta. Qualcosa di difficile da afferrare, impossibile da rappresentare.
Il soggetto delle immagini è l’erbario cresciuto nella zona ancora radioattiva di Chernobyl. Che precauzioni devi prendere per produrre le immagini?
Realizzo questi rayogrammi in un laboratorio sicuro, dove indosso anche un abbigliamento speciale, in modo da evitare qualsiasi esposizione alla radioattività contenuta nei soggetti organici.
Esteticamente e concettualmente, come la radioattività influisce sull’immagine?
Michael Marder, con cui ho collaborato per la realizzazione del progetto e del libro Chernobyl Herbarium. La vita dopo il disastro nucleare (Mimesis, 2021), descrive i rayogrammi dell’erbario come la traccia tangibile della catastrofe invisibile. “Sotto il fallout radioattivo, eravamo tutti piante”, scrive, l’unica differenza è che la vegetazione è più abituata alle radiazioni, in particolare ai raggi ultravioletti del sole, che sono praticamente invisibili per noi. Radicate nel terreno, le piante, ovviamente, non possono sfuggire agli effetti nocivi della radioattività, ma possono adattarsi più rapidamente. Se osservate i rayogrammi dell’erbario di Chernobyl, non vedrete alcuna prova di mutazione, infatti, i cambiamenti nelle piante, nella zona di alienazione, sono invisibili ad occhio nudo. Vengono rivelati dopo diverse generazioni, a livello molecolare, da mutazioni nelle proteine.
La pianta sembra sviluppare un modo per proteggersi dagli alti livelli di radioattività, secondo i biogenetisti dell’Istituto di genetica vegetale e biotecnologia dell’Accademia slovacca delle scienze. Nel loro studio sugli effetti della radioattività sulla flora di quella zona, ne hanno enfatizzato l’adattabilità al nuovo ambiente, caratteristica che forse andrebbe ricondotta a una sorta di memoria vegetale. Il livello di radioattività sulla superficie terrestre, infatti, era molto più alto quando apparvero le prime forme vegetali, circa quattrocentosettanta milioni di anni fa. Nel “frammento 6” del progetto, intitolato Esposizione, Marder evoca il costante scambio tra le piante e il mondo: la loro esposizione all’ambiente, sia atmosferico che pedologico, va di pari passo con una forma di conoscenza del mondo a cui restituiscono costantemente qualcosa. D’altra parte, per noi umani, questa esposizione implica una grande vulnerabilità. Ci porta a percepire nella nostra carne, e a volte con violenza, la nostra immersione nel mondo. È tale immersione, della nostra esistenza nel mondo, che cerco di rendere visibile.
La radioattività di queste immagini, oltre ad essere una componente estetica, permane fisicamente nell’immagine?
Sì, un leggero residuo di radioattività rimane nelle fibre della carta.
Dove e come vengono preservate queste immagini?
Gli originali sono conservati in una scatola di piombo, conservata nel seminterrato di un laboratorio.
I rayogrammi si generano per contatto, un po' come rilevare le impronte digitali di qualcuno. Queste immagini rappresentano, simbolicamente e concettualmente, l’identità di Chernobyl?
In effetti, sono molto legata all’idea di raccogliere un’impronta del soggetto che incontro, attraverso il processo di creazione dell’immagine, senza il supporto di una macchina fotografica o di qualsiasi altro dispositivo che implica un distanziamento. Il gesto fotografico consiste, quindi, unicamente nel riunire gli elementi, creando un ambiente in cui queste entità sono portate a rivelare il proprio agire. Nella serie Chernoyl Herbarium, ad esempio, le piante irradiate compongono le proprie tracce sulla superficie, permettendo all’immagine di crescere al di fuori del mezzo stesso. Composti in questo modo, da e con la radioattività presente nella pianta, i rayogrammi ci invitano a percepire, attraverso i nostri corpi sensibili, un linguaggio di entità non umane, non viste come materiale passivo o come insieme di risorse inerti ad uso e consumo umano, ma piuttosto come materiale incontrato con cui vivere e collaborare in un mondo animato ma devastato. Queste “impronte digitali” vegetali, provenienti dalla zona di alienazione, ci invitano quindi a un “mondo-con”, in risonanza con la nozione di “sympoiesis” di Donna Haraway.