Lee-Ann Olwage – vincitrice della categoria Creatività del Sony World Photography Awards 2023 con il progetto intitolato The Right to Play – concentra la sua produzione fotografica nel documentare trasversalmente il suo paese d’origine, l’Africa, e lo fa portando alla luce le problematiche sociali ed economiche del continente, ma secondo un’estetica non occidentalmente conforme. Questioni come l’identità di genere e la transessualità vengono indagate mettendo a punto una modalità di rappresentazione aderente all’”africanità” di cui quelle storie si rendono manifestazione. L’estetica che persegue Olwage trova il suo incontro tra il glamour della moda e la schiettezza dello stile documentaristico, in una creazione di un immaginario condiviso con i suoi soggetti, conferendo alle sue fotografie una chiara valenza collettiva e comunitaria.
Il progetto #BlackDragMagic è un progetto in collaborazione con l’artista e attivista Belinda Qaqamba Kafassie. Ce ne parli?
Il progetto #BlackDragMagic racconta le storie di persone nere queer, gender – non conforming e trans che sono cresciute nelle borgate di Città del Capo, luoghi dove sono quotidianamente sottoposte a molestie e violenze. Il processo di creazione del progetto è diventato un atto radicale e progressista di attivismo per opporsi al clima travolgente di discriminazione che le persone queer nere affrontano in questi luoghi. È stato ideato e pensato come piattaforma di espressione per creare immagini tramite cui loro si sentano rappresentate e possano raccontare le loro storie in un modo affermativo e celebrativo.
L’“estetica drag”, nel tempo, è stata occidentalizzata e le drag queen sudafricane sono state spesso assimilate agli standard occidentali. C’è quindi bisogno di celebrare e abbracciare l’“estetica drag africana” come un modo per raccontare storie sugli africani in Africa. È un atto di decolonizzazione. Il progetto esplora anche il ruolo che l’identità culturale gioca nell’identità queer nera e ne affronta le problematiche. Cancellare una parte significativa dell’identità di qualcuno equivale a invalidare la sua piena esistenza. Questo è problematico perché in qualche modo dà forza all’idea errata che l’omosessualità sia percepita unicamente come “non africana”.
Nella tua poetica, come metti d'accordo l’estetica della fotografia "di moda" con l'aspetto sociologico e politico del tuo lavoro?
Penso che sia importante raccontare storie esistenti tradizionalmente secondo un’estetica documentaristica, in una narrazione visiva inaspettata, più concettuale. Con tale concettualismo c’è più opportunità, per l’artista, di soffermarsi su un particolare problema, e di mettere in luce soluzioni a importanti problemi sociali in un modo che può coinvolgere un pubblico diverso e più vasto.
Il mio stile visivo è stato, inoltre, fortemente influenzato dal mio percorso come fotografa: sono un’autodidatta e ho scoperto il mio amore per il mezzo solo verso i trent’anni, assistendo fotografi commerciali per saperne di più sull’illuminazione e sulla fotografia. Inoltre ho avuto molti mentori meravigliosi che mi hanno aiutata a trovare l’unicità della mia voce come narratore. Sono sempre stata interessata allo stile documentaristico, ma grazie all’ambiente in cui mi sono formata non ho mai voluto limitarmi a documentare ciò che avevo di fronte. Volevo usare l’illuminazione e concettualizzare ciò che mi sentivo di esprimere con un’immagine. Il mio lavoro, in continua evoluzione, vive a metà strada tra la fotografia documentaria, quella di moda e una ricerca più autoriale. Solitamente non mi attengo a uno stile, ma lascio che la storia mi guidi a trovare quello visivamente migliore.
La tua ricerca si concentra nella documentazione dell’Africa, soprattutto attraverso la ritrattistica. Guardando i soggetti dei tuoi ritratti si avverte la loro fiducia nei tuoi confronti, un abbandono totale. Questo sentimento, che sembra accomunarli, dipende dal tuo modo di lavorare e di relazionarti con loro o in parte anche da un particolare approccio con lo strumento fotografico da parte della popolazione africana?
La collaborazione tra il fotografo e il suo soggetto è fondamentale. Come narratore devi capire che quando intraprendi un progetto sei la persona nella stanza che sa meno della storia che stai per raccontare. Pensare di raccontare la storia di qualcun altro è un’idea molto ingenua. Nella migliore delle ipotesi, attraverso il tuo obiettivo, stai raccontando solo una piccola parte della storia di qualcuno. Quindi le tue idee sono un buon punto di partenza, ma devi essere pronto ad abbandonarle del tutto e lasciare che la storia e la persona o la comunità con cui stai lavorando ti guidino. Adoro creare uno spazio comune con i miei soggetti, in modo che insieme possiamo co-creare immagini che sentono aderenti alle loro storie.
La fotografia sa essere un mezzo molto ambiguo: il fotografo ha il potere di far apparire una situazione come desidera e queste dinamiche di potere sono estremamente complicate. L’unica cosa su cui la fotografia non può mentire è il modo in cui la persona di fronte alla fotocamera si sente nei confronti del fotografo. È importante essere sensibili e intuitivi, solo così un fotografo percepisce se fare o meno una foto. Voglio che le persone trasudino orgoglio e gioia nelle immagini che creiamo insieme.
Il simbolismo e concettualismo di Landscapes si discosta un po' dalla tua ritrattistica documentaria. Ci racconti come nasce e perché questo cambio di prospettiva?
Landscapes rappresenta il mio piccolo scrigno di ricordi, speciali per me. Adoro passare il tempo sulla strada e trascorrere gran parte della mia vita in viaggio. Queste immagini sono nate dalla libertà di essere “on the road”, dai vasti paesaggi in cui sento un forte senso di ispirazione e apertura, non avendo la necessità di lavorare su una particolare storia o tema ma semplicemente di custodire momenti che hanno un significato per me.
In Black Swan tale concettualismo lo rivolgi verso te stessa, per la prima volta. Perché questa scelta?
Durante la pandemia, sono stata costretta, per la prima volta, a rivolgere il mio obiettivo su me stessa. Senza la possibilità di uscire e documentare il mondo esterno, ho deciso di documentare la mia esperienza e di diventare vulnerabile di fronte alla mia macchina fotografica. È stata un’esperienza molto interessante perché solitamente, come fotografa, sono gli altri che si fidano di me nei loro momenti più vulnerabili. Inoltre, sento molto la responsabilità, come narratore, delle storie che mi vengono affidate, per custodirle nel migliore dei modi oltre che per raccontarle. Il processo, in Black Swan, di esporre la mia vulnerabilità e parlare delle mie lotte con la salute mentale è stato una parte importante del mio viaggio come narratore e ha influenzato il modo in cui affronto, ora, certe storie particolarmente sensibili.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Lee-Ann Olwage sono disponibili sul sito ufficiale della fotografa.