Un' esposizione fotografica online mostra al mondo le opere magistrali di Jan C. Schlegel. La sua Tribes of Our Generation è su echofinearts.com fino al 30 aprile.
Il solo pensiero di una mostra fotografica online vi trasmette una certa insoddisfazione? Più che comprensibile, specialmente se a popolare le pareti virtuali dell’esposizione sono le opere di un mostro sacro della fotografia analogica del calibro di Jan C. Schlegel. Tuttavia, la decisione del fotografo tedesco di esporre virtualmente il suo Tribes of Our Generation potrebbe risultare tutt’altro che inadeguata se si pensa all’enorme visibilità che questo strumento offre al suo lavoro. La mostra online presentata da Echo Fine Arts (https://echofinearts.com/exhibitions/tribes/) e visitabile gratuitamente fino al 30 aprile, infatti, è uno squisito biglietto da visita per presentare, anche a chi dovesse trovarsi per la prima volta di fronte a una fotografia firmata Schlegel, vent’anni del lavoro appassionato di un serio professionista della fotografia analogica.
Tribes of Our Generation si compone di immagini scattate da Jan C. Schlegel nel corso della sua carriera, e per la precisione di ritratti che fanno parte delle due serie Tribes of Our Generation (2015 – ancora in corso) e Essence (2012 – ancora in corso). Artista, avventuriero, umanista, Schlegel viaggia dal 1998 per fotografare le molteplici identità del mondo contemporaneo e catturarne l’essenza primordiale. Gli abbiamo fatto qualche domanda sul suo incredibile lavoro da fotografo, partendo proprio dai pro e contro di un’esposizione virtuale.
Hai deciso di mostrare le tue fotografie attraverso una mostra online: quali sono i vantaggi e gli eventuali svantaggi della tua scelta?
Indubbiamente chiunque preferisce visitare una mostra in una galleria o negli spazi di un museo. Accade anche a me: guardare una stampa al platino fatta a mano dal vivo, in uno spazio fisico è un’esperienza impareggiabile. D’altro canto un’esposizione online spalanca le porte a un pubblico esponenzialmente più ampio, sparso in tutto il mondo. I visitatori possono fruire le immagini comodamente dalla loro casa, attraverso un percorso espositivo curato nei minimi dettagli. Trovo che sia un’alternativa molto potente, che contribuisce a far conoscere il lavoro di un autore anche ai collezionisti.
Qual è lo scopo dei ritratti che realizzi in giro per il mondo?
Sono affascinato dalla bellezza e dall’unicità delle società tribali e delle persone in generale. Punto a mostrare il modo in cui le vedo io e a generare un fascino che incuriosisca l’osservatore.
Oltre i tatuaggi, gli ornamenti, le cicatrici e le elaborate acconciature c’è un’umanità intrinseca che mi piace far emergere con le immagini. Voglio che le fotografie siano così incisive da stimolare in chi le guarda una riflessione sulla propria vita, ma anche sul concetto di identità e integrazione. Il mio intento è spingere l’osservatore a porsi delle domande come ‘Cosa fa sì che una persona diventi parte di una tribù?’, oppure ‘Come ciascuno di noi decide di presentarsi agli occhi degli altri? Le culture differenti ci uniscono o ci separano?’.
Come entri in contatto con i tuoi soggetti?
Ci parlo. Tra le tribù africane mi faccio aiutare dagli interpreti, oppure cerco di spiegarmi a gesti. Solitamente trascorro qualche giorno in un villaggio prima di iniziare a scattare delle fotografie. Faccio sì che i miei soggetti percepiscano il mio genuino interesse per la loro cultura, la loro tradizione e il loro stile di vita. Così guadagno un po’ della loro fiducia, che è l’ingrediente essenziale dei miei ritratti.
“Ho realizzato questa fotografia nel villaggio della tribù Suri sulle montagne vicino al confine tra Etiopia e Sudan meridionale. Quando ho chiesto alla giovane madre il permesso di scattarle una fotografia ha camminato lentamente verso il mio piccolo set. In piedi, di fronte alla mia fotocamera sembrava una top model, perfettamente consapevole del modo in cui avrebbe dovuto posare. Ha ruotato la testa verso di me e ha guardato dritto nell’obiettivo, come se fosse la cosa più naturale da fare”.
Hai scattato la maggior parte delle fotografie di Tribes of Our Generation con una Ebony SV45 Ti. Secondo te cosa rende la fotografia analogica migliore di quella digitale?
Ho provato a lavorare in digitale qualche volta e semplicemente direi che non c’è sintonia. No riesco a sentire ciò che sento quando uso un vecchio banco ottico. Fotografare con una grande formato mi fa lavorare più lentamente. Faccio al massimo due scatti per ogni soggetto, ed entrambi devono risultare esattamente come li volevo. Credo anche che la fotocamera che uso mostri alle tribù la serietà del mio approccio. Mi inginocchio nella sporcizia insieme a loro, utilizzando un lentino di ingrandimento per focheggiare sul vetro smerigliato. Mentre faccio la fotografia non sto mai nascosto dietro la fotocamera, ma sempre accanto, completamente connesso con la persona che sto ritraendo, in una sorta di dialogo non verbale.
Altro aspetto che ritengo fondamentale della fotografia analogica è l’autenticità dell’immagine. Nulla può essere manipolato e la fotografia può pretendere la completa fiducia di chi la guarda. Questo per me è essenziale nella pratica fotografica.
Definisci le tue immagini partially toned. Cosa significa esattamente?
I capelli e la pelle della persona fotografata vengono colorati in modo selettivo attraverso un processo chimico. La fase più lunga e delicata del procedimento è quella di mascheratura di tutte le aree della stampa che dovranno rimanere in bianco e nero, senza essere alterate dal toner, vale a dire dalla soluzione chimica di cui mi servo.
Parlaci della distanza ideale tra te e il soggetto. Quanto conta la distanza nelle tue fotografie?
Cerco di avvicinarmi il più possibile. Uso una grande formato 4×5 con un obiettivo Schneider Symmar 150 mm APO f/5.6, che corrisponde a una lunghezza focale standard simile al 50mm sul formato 35mm e crea una prospettiva molto simile alla percezione visiva dell’occhio umano. Voglio che l’immagine produca la sensazione di essere vicini a ciò che si guarda e l’obiettivo che uso mi dà grandi soddisfazioni in tal senso. Inoltre la dimensione della lente frontale è così grande da consentire al soggetto ripreso di vedere la propria immagine come se fosse davanti a uno specchio. Questo aiuta i miei ‘modelli’ a concentrarsi e a creare immagini intense. Spesso utilizzo anche uno Schneider Symmar S 360mm f/6,8.
Quali sono le fotocamere che usi di più e quali sono le differenze principali nel risultato?
Uso una 4×5″ Ebony SV45 Ti artigianale in legno e una Linhof Master Technika peri ritratti, specialmente quando sono in viaggio. Per i ritratti in studio, invece, mi servo di una 8×10″ Chamonix e a volte di una fotocamera italiana: la 40x50cm Stenopeika. Spesso utilizzo un flash portatile Profoto sul quale monto un softbox.
Hai degli assistenti? Trasmetterai il tuo prezioso sapere alle future generazioni?
Non ho assistenti, il modo in cui vivo e lavoro non ha pressoché alcuna struttura, dunque sarebbe complicato per chiunque lavorare insieme a me. Per trasmettere le mie conoscenze, però, tengo workshop e lezioni personali.
Quante tecniche di stampa antiche hai imparato nel corso della tua carriera? Ne sceglieresti una da raccontarci?
Ho imparato a padroneggiare la stampa ai sali d’argento e quella al platino, e proprio ora sto sperimentando la stampa alla gomma bicromata. Sebbene tutte le fotografie mostrate in questo articolo siano state realizzate con la stampa ai sali d’argento voglio parlarvi della stampa al platino o platinotipia, la tecnica più nobile. Tra i collezionisti di immagini fotografiche le stampe al platino sono rinomate per la loro bellezza, grazia, e stabilità, che supera di gran lunga quella delle stampe ai sali d’argento. Oltretutto l’irriproducibilità delle opere le rende letteralmente uniche.
L’emulsione ai sali di platino – metallo nobile e resistente all’ossidazione – si infila nelle fibre della carta durante il processo di stampa.
“Avevamo guidato per giorni nel deserto libanese in cerca dei Beduini. Nella più bella delle oasi, che sembrava uscita fuori da un libro per bambini, con palme, dune di sabbia e un piccolo lago, abbiamo incontrato Mabruko mentre giocava con le sue galline e i suoi pulcini. Suo padre, pieno d’orgoglio, ci ha presentato l’intera famiglia: tre mogli e trenta figli. Gli ho chiesto se potessi fotografare Mabruko e ha risposto con grande entusiasmo. Le hanno velocemente lavato i capelli e le hanno fatto indossare un giacchetto. Vederla di fronte al mio banco ottico è stato un momento bello per noi e intenso per la sua famiglia. Ho fatto qualche fotografia e quando ho sviluppato i negativi al rientro non potevo credere a quanto fosse bella e intensa. Un anno dopo siamo tornati per consegnarle la fotografia, ma non siamo più riusciti a trovare il suo villaggio”.
Come per tutti i processi fotografici antichi la stampa ai sali di platino si ottiene posizionando il negativo a contatto diretto, con la carta trattata con uno strato di emulsione. Le stampe al platino hanno un look differente da quelle ai sali d’argento o dalle stampe digitali: le immagini risultano opache perché l’emulsione viene assorbita dalla carta anziché rimanere sulla superficie. Inoltre la platinotipia prevede un passaggio tonale più graduale dal bianco al nero. A un occhio abituato all’impatto di una stampa ai sali d’argento una stampa al platino apparirà più delicata e meno contrastata. In realtà nella stampa al platino ci sono più passaggi tra il bianco puro e il nero assoluto rispetto a quella ai sali d’argento.
Le mie stampe al platino sono fatte con emulsioni mescolate a mano immediatamente prima dell’utilizzo e spalmate a pennello sulla carta. Una volta che la superficie è asciutta posiziono il negativo a contatto con la carta e espongo il tutto al sole o alla luce ultravioletta per un’ora o per un tempo maggiore, a seconda della densità e del contrasto del negativo.
Il tono dell’immagine stampata con questa tecnica può variare da un nero leggermente tendente al viola a una combinazione di toni del marrone e del nero fino a un nero molto caldo. Sono i dosaggi delle diverse componenti dell’emulsione, la scelta dei liquidi di sviluppo e la loro temperatura a determinare il colore finale. Le stampe al platino della serie hanno un doppio livello, come accadeva per alcune delle immagini più iconiche di Irving Penn. Per aumentare la tonalità e la profondità in certi casi ho aggiunto dell’iridio all’emulsione, che rende le immagini ancora più nobili e ricche di mezzi toni. Dato che le emulsioni sono mescolate e distribuite a mano non accade mai che due stampe siano uguali, e questo le rende delle opere d’arte uniche.
Di seguito un video che mostra la tecnica del partial toning (la colorazione parziale) impiegata da Schlegel. È un processo chimico che si svolge dopo aver sbiancato le parti che dovranno assumere i toni del marrone una volta immersi nell’emulsione. All’autore ci sono voluti due anni per mettere a punto la soluzione chimica perfetta. L’intero processo di stampa richiede dalle otto alle dodici ore per ciascuna fotografia.
Bio
Affascinato dalla fotografia dall’età di quattoridic anni Jan C. Schlegel ha plasmato il suo stile e la sua tecnica fotografica e di stampa in camera oscura grazie agli insegnamenti di Walter Schels e Toni Schneiders.
Dal suo primo viaggio in Asia nel 1998 ha visitato oltre sessantuno Paesi con lo scopo di documentare i suoi incontri e preservare il più importante patrimonio dell’umanità: le persone.
Schlegel cerca spesso i suoi soggetti in luoghi a caso, dai mercati ai villaggi o direttamente in strada e li posiziona davanti a un fondale grigio per evitare elementi di disturbo.
La tecnica prediletta dall’autore è il partial toning, una colorazione parziale il cui risultato è un’immagine ad alto contrasto che si associa immediatamente allo stile di Schlegel. Dalla sua prima mostra a Paris Photo nel 2007 il fotografo tedesco ha acquisito un prestigio internazionale per la maestria tecnica e l’unicità dei suoi lavori. Finalista dell’Hasselblad Masters Award, vincitore dell’AGFA, le sue opere sono collezionate in tutto il mondo.