Da anni Paolo Verzone lavora sulla documentazione della zona artica, in cui si concentra gran parte della ricerca scientifica relativa al cambiamento climatico. Abbiamo parlato con Paolo del suo lavoro e della vita nell’Artico.
Come e quando nasce il tuo progetto Arctic Zero?
Nasce da un “assegnato” del 2015 di Le Monde, che mi mandò alle Svalbard, un arcipelago a nord della Norvegia, a documentare la base scientifica di Ny-Ålesund, dove operano più di dieci nazioni, tra cui anche l’Italia con il CNR. Quella base è il luogo da dove è partito il Generale Umberto Nobile con il dirigibile Italia nel 1928 e da dove partì anche Roald Amundsen, sempre insieme a Nobile, anni prima, per la scoperta del Polo Nord con il dirigibile Norge. Ci sono ancora delle tracce di quelle spedizioni. Dalla prima volta che ci misi piede me ne innamorai perdutamente: del luogo, dell’ambiente, di una sorta di purezza assoluta e contatto con gli elementi della natura che non avevo mai sperimentato da nessun’altra parte. Nel 2015, dopo una sola settimana all’interno dell’insediamento della base scientifica, ho subito capito che c’era un intero mondo da raccontare e soprattutto da esplorare in maniera più approfondita e ad oggi continuo ad andarci regolarmente.
Cosa ti ha colpito in primo luogo?
Quando a Lawrence D’Arabia, nel film interpretato da Peter O’Toole, viene chiesto perché gli piaccia il deserto lui risponde “perché è pulito”. La mia risposta riferita all’Artico è la stessa. Perché è pulito più di ogni cosa che una persona abbia visto pulita in tutta la sua vita. Quando scendi dall’aereo e respiri, nessuno ha mai respirato un’aria così non inquinata. Ed è una sensazione palpabile, che ti rimarrà impressa per sempre. Toccare con mano l’idea dell’aria che potrebbe essere senza inquinamento. Ha un sapore. È sconvolgente. Come anche l’acqua che bevi, arrivata a te dallo scioglimento di ghiacciai di più di diecimila anni. Ti fa pensare di non aver mai bevuto un bicchiere d’acqua. È il luogo allo stato più puro che io abbia mai visto, percepito e vissuto. Per quello la ricerca scientifica si è concentrata specificamente lì, e in Antartide.
In Arctic Zero alterni il ritratto “posato” a una narrazione reportagistica che conferisce al lavoro un senso di immediatezza…
In Arctic Zero la realtà che racconto è sempre nel divenire delle cose, mentre le cose accadono. Per documentare quel flusso scelgo se usare il registro del reportage o se isolare uno degli elementi o uno dei personaggi della narrazione. L’idea è quella di una struttura filmica: ci sono scene che sono più funzionali ai personaggi ed altre invece allo svolgersi di un’azione. O anche di una partitura musicale: ci sono delle parti in cui il ritmo è più incalzante e delle parti che rappresentano delle pause. Ogni immagine di Arctic Zero ha un peso diverso e conferisce un ritmo diverso: ci sono foto che sono delle pause, quelle che servono alla descrizione e alla presentazione dei protagonisti e delle foto che ritraggono, invece, le loro azioni. La sensazione finale, di chi guarda il mio lavoro, è quella di assistere a qualcosa che sta accadendo con, in sottotraccia, delle informazioni che lo spettatore non sa precisamente da dove giungano, se dalla foto di reportage o dal ritratto o dalla foto del paesaggio.
Nelle immagini del progetto si avverte molto forte una tensione di allerta, di pericolo quasi. La insinui proprio in quella dimensione di sottotraccia di cui hai appena parlato…
Assolutamente. È un processo che applico coscientemente. Mantengo sempre vivo questo senso di allerta tramite il ritratto di particolari posizioni del corpo o dello sguardo o tramite la luce, dando allo spettatore una sorta di schiaffo visivo per tenerlo sveglio, per mantenere alta la sua attenzione.
Mi riferisco, ad esempio, all’immagine dell’orso bianco imbalsamato, retto sulle zampe posteriori, in una posa, pare, d’attacco. Quella immagine mi risuona come un monito all’allerta constante…
È un orso imbalsamato, posto all’ingresso della mensa della base scientifica. Quindi, esattamente, un monito giornaliero, a colazione, pranzo e cena. Quello che tu hai avvertito in Arctic Zero è una sensazione di allerta che viene vissuta realmente da ogni persona che si trova nell’Artico. Jack London insisteva sul concetto che l’essere umano ha dentro di sé un patrimonio genetico di emozioni che vengono riattivate in condizioni estreme di sopravvivenza, richiamando la nostra parte più “animale”. E nell’Artico è proprio così. Alle persone che arrivano viene fatto un vero corso di sopravvivenza in cui la figura dell’orso bianco è spiegata come un animale non particolarmente intelligente, molto istintivo, e per questo molto pericoloso.
Lo stato di allerta, per l’essere umano, nell’Artico è, quindi, costante e il pericolo può sopraggiungere inaspettatamente. Può essere un attacco di un orso come anche la presenza di un dirupo coperto dalla calotta di neve. In ballo c’è la sopravvivenza, la vita, se non si presta la dovuta attenzione il rischio è la morte. Questa prospettiva mette l’individuo nella posizione di preda, non di cacciatore, in uno stato di vulnerabilità che solitamente, nelle nostre città, non ci è proprio. Il corso di sopravvivenza serve, per l’appunto, ad attivare quell’istinto che solitamente vivendo in città è sopito. Dopo due/tre settimane avverti dei cambiamenti di percezione e anche fisici: cammini più veloce, senti gli odori più forti o vedi più lontano e sei assolutamente più reattivo. Entrandoti in testa la sensazione di permanente pericolo si riattiva la tua parte animale. È una realtà che accresce la propria coscienza anche a livello mentale e umano, oltre che fisico.
L’uomo che tu ritrai in Arctic Zero è colto nell’ambiente circostante in un costante movimento, in perenne attività…
Certo, rispecchia il territorio e quel perenne stato di allerta di cui abbiamo appena parlato. L’Artico è un luogo che stimola l’attività e il fare.
Arctic Zero è un progetto ancora in corso, pensi avrà mai termine?
Non voglio che abbia termine. Voglio continuare ad avere un pretesto per tornarci ogni anno.
Per una più corretta informazione sul cambiamento climatico che ruolo può avere la fotografia?
La lettura dei dati scientifici è la cosa sicuramente più importante, ma c’è ancora molta diffidenza nei confronti della scienza. Meno, rispetto ad anni fa, ma comunque sempre persistente. È difficilissimo rendere visualizzabile quello che sta succedendo e forse proprio per questo le persone non lo capiscono totalmente. Il fatto che abbiamo accesso a infinite fonti di conoscenza accresce, poi, il rischio di travisare i dati riportati, anche perché tutti sembrano avere un’opinione in merito, anche chi non ne ha le competenze. L’unica informazione veritiera è quella basata sulla verifica delle fonti e la qualifica del testimone. Io, nel mio piccolo, cerco sempre di attenermi a tali fonti riconosciute, chiedendo consulenza a scienziati ed esperti, ad esempio, per realizzare le didascalie.
Questo e altri lavori di Paolo Verzone sono visibili nel sito ufficiale dell’autore.