Già da bambina Roberta Krasnig dimostrava la sua indole fotografica applicata alla moda.
Colore, composizione, pellicola, influenze artistiche sono al centro della sua idea di fotografia, che l’autrice romana ha potuto plasmare nel tempo con una lunga gavetta e un certo tipo di rigore professionale che sa di artigianalità e antichi processi di produzione visiva. Le sue fotografie nascono da una visione “pulita” ed esteticamente calibrata, senza troppi fronzoli, che deve far riverberare la potenza intrinseca dell’immagine, sia che si tratti di commissionati per case di alta moda, sia che si tratti delle sue collaborazioni con magazine indipendenti o dei suoi lavori come autrice. Abbiamo intervistato Roberta per farci raccontare il suo percorso e il suo pensiero sul fotografico.
Come hai iniziato a fotografare?
L’inizio del rapporto con la fotografia è stata una vera epifania. Parlando con un amico che lavorava per Reporters Sans Frontières sono stata invogliata a fare un corso. Nel contempo mi stavo laureando in economia e commercio, ma dopo la laurea decisi di dedicarmi completamente alla fotografia.
Questo linguaggio, comunque, è stato sempre parte di me, mi piaceva, in adolescenza, immortalare le mie amiche e i miei amici, creando album fotografici. Però il suo utilizzo rimaneva a livello privato, per un racconto diaristico e intimo. Ricordo che già a dodici anni facevo degli shooting scimmiottando servizi di moda, usando le macchine fotografie compatte che regalavano con i fustini del Dixan.
Quando ti sei resa conto, per la prima volta, di avere una tua progettualità fotografica?
Decisi di iniziare subito a lavorare con la fotografia, per dimostrare agli altri che potevo viverci, ma per fare ciò ho dovuto rinunciare alla formazione “tipica”, ossia fare esperienza all’estero, a spese dei miei genitori, seguendo lavori non retribuiti. Così, ho trovato un impiego in un’agenzia fotografica, lavorandoci tutti i giorni, e da lì sono partita, come assistente.
Mi sono messa a riflettere seriamente sul mio linguaggio fotografico, per la prima volta, quando mi sono resa conto che le immagini del fotografo per cui lavoravo non si distinguevano più da quelle prodotte da me.
Rendermi conto di questo è stato l’inizio della mia carriera come autrice: ho deciso di crearmi un mio portfolio, andare a Milano, investire sul mio stile legato intrinsecamente alla moda, seguita da un’agenzia fotografica che mi rappresentasse. Tra il 2008 e il 2009 posso dire di aver raggiunto, con il mio lavoro, una coerenza progettuale.
Quali sono i punti cardini della tua estetica?
Più che di ‘estetica’ parlerei di ‘poetica’. Seguo un pensiero che mi fa produrre immagini pulite e classiche. Recentemente, inoltre, ho ampliato il mio linguaggio espressivo e fotografico contaminandolo con l’arte contemporanea. Per arrivare a questo punto mi hanno influenzato esperienze come la collaborazione con Mia Le Journal, un magazine biennale, che mi ha concesso totale libertà di lavoro. Per la realizzazione degli editoriali di moda della rivista ho iniziato a lavorare con una stylist, Gaia Fraschini, grazie alla quale ho fatto un ulteriore balzo in avanti relativamente al mio stile e al mio lavoro. Dalla prima produzione insieme ho capito che il nostro dialogo era molto proficuo e da allora non ci siamo più lasciate.
Tra le tante storie visive realizzate insieme, una delle più forti, creata per Mia Le Journal, è The Others, incentrata sul concetto di incomunicabilità: si vedono due modelli, un uomo e una donna di origine asiatica, spesso coperti e il cui viso rimane celato da televisori e altri dispositivi. Il progetto si compone di immagini mosse, soggette a doppie esposizioni, per poi concludersi con l’ultima fotografia in cui si capisce che l’uomo e la donna, apparentemente così distanti, si ritrovano, invece, insieme, nella stessa casa. Per costruire quel lavoro siamo partite da un concetto molto specifico e molto forte che fa capire l’importanza delle idee alla base delle produzioni. Senza idee da cui partire non si va avanti.
Nel tuo lavoro è più importante la storia o l’estetica?
Sono entrambe importanti per me e per il mio modo di lavorare. Mi piace la costruzione dell’immagine, seguendo una certa estetica pulita e raffinata, ma anche la creazione di uno storytelling è altrettanto importante. Sono del parere, però, che l’idea di storia può svilupparsi anche in una singola immagine, intrinsecamente potente. Non ho la necessità della sequenzialità per raccontare qualcosa. Da questo punto di vista seguo lo stile e il pensiero che era dei surrealisti, usando le loro simbologie, il loro concetto di immagine, anche legata all’azione performativa.
Tu scatti spesso in analogico. Qual è l’apporto che l’analogico conferisce al tuo lavoro?
Io sono nata come fotografa con l’analogico. Per me, quindi, lavorare con questa modalità è come un tornare a casa. Inoltre, sopportando poco la post produzione, o meglio, il pensiero di realizzare le immagini in una fase successiva allo scatto, l’analogico, secondo me, è un modo per semplificare il mio lavoro, per renderlo più immediato e reale.
Poi, ovviamente, dipende dalla situazione e dal cliente. Magari per una questione di budget non posso far rientrare i costi dell’analogico e di conseguenza scelgo il digitale. Ma anche lavorando con il digitale, dal punto di vista della messa in scena e della costruzione dell’immagine, io preferisco continuare a lavorare come un’artigiana, intervenendo in fase di scatto o prima dello scatto, non dopo, con i programmi di elaborazione grafica.
E quando il digitale è preferibile, a cosa ti affidi?
Anche in questo caso, per il momento, preferisco un approccio classico, nel senso che non sono ancora approdata a un sistema mirrorless. Preferisco la naturalezza del mirino ottico della reflex e, nello specifico, della Nikon D850. Ho anche una D810 come muletto, mentre le mie ottiche preferite sono tre zoom, 17-35mm, 24-70mm e 70-20mm, tutti f/2,8, ai quali alterno le ottiche fisse da 50mm e 85mm. Raramente, ma uso anche il Micro Nikkor 105mm.
Alterni colore e bianco e nero. Ma se dovessi scegliere cosa sceglieresti?
Il colore, assolutamente. La mia produzione inizia sempre a colori, se per necessità ho bisogno del bianco e nero lo trasformo a posteriori. Con il colore, la mia visione diventa come quella di un pittore che tramite le diverse nuance dà profondità e significato alle cose. Ritengo il bianco e nero una pratica che facilita il lavoro fotografico e spesso nasconde carenze di idee e tecnica.
E, invece, tra fotografare in studio e in esterni?
Da questo punto di vista non ho una vera preferenza, anche se forse scatto più spesso in studio, ma dipende dal lavoro e dal contesto. Trovo più concettuale e performante lo scatto in studio, perché richiede una pre-visualizzazione e un’orchestrazione più attenta da parte di tutta la squadra creativa, l’esterno invece lo prediligo se devo raccontare una storia, con immagini sequenziali, dove anche l’ambientazione fa la sua parte.
Quando fotografi in esterno, spesso sono ambientazioni naturali. Come l’elemento della natura si inserisce nella tua idea di composizione?
Penso che l’ambiente naturale mi offra una tavolozza più completa, di colori, ma anche di situazioni e di geometrie.
Prima parlavi del surrealismo, ci sono altri fotografi o artisti che hanno influenzato la tua ricerca?
Sicuramente Richard Avedon e Herb Ritts fra tutti, oltre a Peter Lindbergh.
Se dovessi citare delle immagini o dei progetti che sono stati, per te, dei punti di svolta della tua carriera, quali sarebbero e perché?
Sicuramente il ritratto di Natalie Portman ambientato tra le rovine di Ostia Antica, una fotografia fatta due anni fa per un lancio della Marvel. Un’esperienza interessante e anche molto emozionante, sia per il calibro del personaggio, ma anche per quello che quell’immagine mi ha restituito poi, a livello visivo.
Poi, in generale, il lavoro con la stampa indipendente, con The Collector Magazine e Mia Le Journal, che mi ha dato l’opportunità di cimentarmi in quello che mi piace di più, cioè un’idea di ‘moda ragionata’, che richieda un’estetica alla cui base ci deve essere riflessione e forza visiva. Infine, un altro punto di svolta, relativo alla mia produzione, è ricollegabile al 2012, quando da Milano sono tornata a Roma per fotografare gli attori del cinema come servizio di moda. Penso di essere stata tra le prime a farlo.
Tu lavori sia per commissionati che per progetti autoriali. Pensi che emerga una tua cifra stilistica anche dai lavori che ti vengono commissionati?
Spero di sì. Quando scatto, nei commissionati, è a questo che punto, anche seguendo la necessità del cliente che spesso si allontana dalla mia visione. Cerco però di realizzare sempre alcuni scatti dove mi rispecchio pienamente e alla fine del lavoro, spesso, sono tra i più apprezzati.
A cosa stai lavorando ora?
Ho da poco chiuso una pubblicazione sul mio lavoro, una monografia intitolata The Moment, pubblicata dalla casa editrice berlinese Snap Collective, in cui sono incluse le mie fotografie di moda, i ritratti e anche dei paesaggi, che solitamente produco in momenti privati o quando sono in viaggio.
E cosa ricollega il lato più fashion della tua produzione ai paesaggi?
L’estetica, il colore, la composizione, le analogie delle forme. Tutte le immagini sono ricollegate tra loro dal concetto astratto di ‘momento’, trasferendo nelle fotografie un mio stato interiore e un mio modo di intendere il mondo.
Ulteriori fotografie e informazioni sul lavoro di Roberta Krasnig sono disponibili sul sito della fotografa robertakrasnig.com.
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