In Corea del Sud è fuoco di critiche per un progetto di sorveglianza biometrica di massa contro il Covid-19, pronto dall’inizio di quest’anno. Si tratta di un esperimento pilota che interessa Bucheon, città di circa 800.000 abitanti a sud-ovest della capitale Seul. L’iniziativa suscita perplessità non solo in merito alla tutela della privacy, ma pure degli stessi diritti umani.
Eppure, le intenzioni del “Grande Fratello” orientale sono nobili: prevenire i contagi tracciando – attraverso una rete di quasi 10.000 telecamere collocate in luoghi pubblici – gli spostamenti delle persone positive al coronavirus e dei relativi contatti. Nel Paese esiste già un sistema di vigilanza sanitaria capace di incrociare i dati più disparati: dalle immagini delle telecamere a circuito chiuso alla posizione degli smartphone, alle coordinate dei luoghi ove sono utilizzate le carte di credito, tuttavia in questo caso l’analisi è affidata a esseri umani.
Invece, il modello Bucheon schiera software biometrici e intelligenza artificiale, ossia ciò che occorre per scandagliare in tempo reale un enorme flusso di immagini riconoscendo l’identità dei cittadini e rilevando pure se indossano o meno la mascherina. Altro punto critico è che la normativa sud-coreana prevede l’espresso consenso al tracciamento biometrico da parte delle persone positive, ma in questo caso restano coinvolti anche i loro contatti: le autorità ribattono che i volti estranei vengono oscurati in automatico.
Prima che in Corea del Sud, il riconoscimento biometrico è stato testato su larga scala in Cina, India, il Giappone, Polonia, Russia e USA, sempre con motivazioni giustificate dall’emergenza pandemica. In Italia, nelle more di una specifica normativa in materia (che dovrebbe essere predisposta entro la fine del 2023), sinora il Garante della Privacy ha bocciato le richieste di applicazione di sistemi di questo tipo, indipendentemente dalle finalità; il loro impiego è tuttavia ammissibile nelle attività d’indagine da parte dei pubblici ministeri.