Sotto shock, nuda, col braccio appena bruciato dal napalm: l’8 giugno 1972 Kim Phúc aveva nove anni e insieme ad altri ragazzini col terrore stampato in faccia camminava incrociando un fotoreporter. I suoi piedi percorrevano una strada di Trảng Bàng, un paesino del Vietnam del Sud allora occupato dalle forze nordvietnamite, sul quale un gruppo di cacciabombardieri dell’aviazione sudvietnamita aveva appena sganciato dalle bombe al napalm colpendo per errore un rifugio di civili.
Quel giorno Kim Phúc è diventata la protagonista di una delle fotografie più struggenti e iconiche di sempre, che da più di cinquant’anni fa il giro del mondo come foto simbolo degli orrori della guerra in Vietnam. Da allora The Terror of War – meglio nota come Napalm Girl – è sempre stata attribuita al fotografo Nick Ut (Associated Press), valendo all’autore il premio Pulitzer per la fotografia e il World Press Photo, entrambi conferitigli nel 1973.
The Stringer: il documentario che mette in discussione la paternità di Napalm Girl
Lo scorso week-end, in occasione del Sundance Film Festival 2025, è stato proiettato in anteprima il controverso e clamoroso documentario della VII Foundation intitolato The Stringer.
Come si legge sul sito ufficiale dell’agenzia, si tratta di un’indagine sulla veridicità della paternità dell’immagine, avviata dopo una scioccante ammissione da parte di un coraggioso informatore e documentata dal regista Bao Nguyen.
A imbarcarsi in un’incessante ricerca della verità finalizzata a ottenere giustizia per un uomo conosciuto solo come “the stringer” è stata una squadra composta dall’acclamato fotografo di guerra Gary Knight – direttore esecutivo della VII Foundation – e dai giornalisti Fiona Turner, Terri Lichstein e Lê Vân.
“Il film – ha dichiarato Knight – affronta le questioni della paternità, dell’ingiustizia razziale e dell’etica giornalistica, mettendo in luce il contributo fondamentale, ma spesso non riconosciuto, dei freelance locali che forniscono le informazioni di cui abbiamo bisogno per capire come gli eventi mondiali si ripercuotono su tutti noi”.
Mentre la Associated Press contesta il contenuto del documentario con un dettagliato report raggiungibile tramite il sito www.ap.org, l’organizzazione del World Press Photo risponde all’inevitabile curiosità del pubblico riguardo al destino del premio assegnato a Ut cinquantadue anni or sono, dichiarando di voler comprendere al meglio i fatti e contestualizzare la situazione prima di intraprendere qualsiasi azione.
Il più importante concorso internazionale di fotogiornalismo su scala globale espone, sul sito della competizione stessa, la procedura da seguire in casi in cui emergano delle accuse successive all’assegnazione dei premi (i più curiosi potranno leggere pagina 34 del capitolo Judging process).
Sul sito ufficiale del World Press Photo è pubblicata una riflessione della direttrice esecutiva del concorso Joumana El Zein Khoury sulla questione sollevata dal documentario, sulle delicate tematiche dell’affidabilità e della veridicità nel fotogiornalismo, sul ruolo cruciale del dibattito continuo a proposito dei materiali di documentazione storica e sull’importanza del coraggio di suscitare dubbi per quanto questi ultimi siano capaci di generare disagio.
“Quella in Vietnam – si legge nell’intervento di Joumana El Zein Khoury – è stata la prima guerra a essere affrontata intimamente, capillarmente e coraggiosamente dai fotogiornalisti. Le società stavano cambiando ovunque, ma le organizzazioni mediatiche avevano una struttura di potere capace di controllare non solo la selezione delle immagini da considerare importanti, ma anche chi le scattava, le modificava e le pubblicava”.
[…] “Si tratta di capire chi ha avuto il potere di scegliere l’immagine, di scrivere la didascalia, di mettere questa immagine sotto i riflettori del mondo e, infine, di attribuirne la paternità. Questa controversia parla della struttura di potere tra singoli fotografi locali e una grande organizzazione mediatica. Evidenzia l’importanza dello status e il ruolo che i maschi bianchi occidentali hanno avuto, e probabilmente hanno ancora, nel mostrare importanti eventi di cronaca che hanno definito la storia dell’umanità. Evidenzia come la storia sia stata plasmata, da chi e per quale scopo”.
Il tempo ci racconterà qualcosa in più sulla vicenda? Difficile a dirsi. Al momento assistiamo a due schieramenti (quello della VII Foundation e quello della Associated Press) che vanno in direzioni completamente opposte, a partire dalle dichiarazioni rilasciate in merito all’approccio ai testimoni da parte di chi ha lavorato alla realizzazione del film. Senza dubbio seguiremo con interesse gli sviluppi sulle decisioni del World Press Photo e torneremo ad aggiornarvi.
Intanto “Napalm Girl” torna al centro dell’attenzione mediatica, ancora una volta, e il medium fotografico bisticcia con l’ingenua definizione di inconfutabile prova della realtà… ancora una volta.
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