Tano D’Amico è sempre stato il fotografo degli ultimi e qualsiasi fotografia pescata dal mucchio del suo smisurato archivio grida il suo coinvolgimento attivo al fianco di questa gente. Immerso nel cuore delle situazioni più delicate ha potuto vedere le persone da vicino, conoscerle e raccontarle in fotogrammi in cui ha speso tutto sé stesso in una costante lotta per la giustizia.
Tano D’Amico è stato scelto come capo della giuria del concorso Obiettivo lavoroINsicurezza. La competizione, organizzata dall’associazione di promozione sociale Rete Iside Onlus, è incentrata sul tema della sicurezza sul lavoro, e ha lo scopo di contribuire alla sensibilizzazione del nostro Paese su una questione che ancora oggi si rivela quanto mai critica e attuale.
Abbiamo intervistato Tano, colonna portante della fotografia impegnata, che ci ha fornito spunti interessanti per riflettere sull’interpretazione visiva di un argomento a lui molto caro.
Sarai il capo della giuria del concorso Obiettivo lavoroINsicurezza. Perché?
Perché da quando ero giovane, oserei dire piccolo, ho sempre intrattenuto un rapporto con le persone che lavorano nel pericolo, parteggiando per loro incondizionatamente. Ora che si è presentata la possibilità di cucire lo strappo che da decenni c’è tra l’immagine e queste persone, sono accorso. Per me la fotografia può aiutare a far emergere una giustizia perseguibile solo con amore e dedizione continua nei confronti di chi rischia la vita per guadagnarsi il pane.
Il tema di questo concorso è nobile ma molto mirato e forse complicato da affrontare per mezzo della fotografia. Che tipo di immagini ti aspetti di ricevere e di dover valutare?
Nella mia vita ho sempre avuto un bisogno tremendo di immagini per arricchirmi. Anche nell’ambito di questo concorso mi aspetto tantissimo, mi aspetto di entrare in una delle realtà più problematiche del nostro Paese attraverso le fotografie di chi vorrà partecipare, a prescindere dal genere che i candidati sceglieranno per esprimersi. Ciò che conta è che le immagini continuino a essere il rifugio per le persone sconfitte e la forza che le aiuta a continuare a lottare.
Soprattutto mi aspetto molto dai giovani che sono obbligati in questo tritacarne dell’alternanza scuola-lavoro che ha già prodotto troppi morti. I ragazzi stessi potrebbero mettersi in gioco e raccontare a tutti, anche attraverso il cellulare, quello che vivono in questo sistema orribile.
È bene che la scuola educhi i giovani ad affrontare il lavoro piuttosto che a lavorare, ma soprattutto che insegni loro a prendere coscienza degli eventuali pericoli e dell’importanza della tutela dei loro diritti. Troppe volte il lavoro si è trasformato in sinonimo di fatica e morte ed è bene che i ragazzi percepiscano un senso di disagio e di ingiustizia e che lo esprimano per mezzo della partecipazione, sia sul piano sociale, sia mediante iniziative importanti come questo concorso.
Sul fronte pratico della realizzazione c’è il rischio di incappare in questioni legali, mancata accessibilità o problemi legati alla privacy. Come ovviare a questi impedimenti?
Io credo molto nell’astrattezza delle immagini e penso che una situazione possa essere raccontata – oltre che con l’immagine esplicita di un ponteggio pericolante – fotografando un lampo d’occhi, un gesto, un attrezzo. L’immagine non si divide in generi, ma in belle immagini e brutte immagini. Io opto per le belle immagini perché ne ho bisogno per vivere e affrontare i drammi miei e degli altri. E una bella immagine è quella che apre gli occhi, fa riflettere su certe cose anche a distanza di molti anni e aiuta a vivere a pieno una situazione.
Il bando del concorso Obiettivo lavoroINsicurezza viene lanciato sul sito di Rete Iside Onlus con una tua immagine abbastanza forte. Ne vuoi parlare?
Certamente. È una fotografia scattata tanti anni fa a Roma, in piazza Montecitorio. Ero in centro a prendere un gelato e quando ho visto della gente agitarsi mi sono avvicinato alla folla per apprendere, in pochi istanti, che era crollato un ponteggio dalla facciata del Parlamento. C’era un uomo a terra, dolorante, e un’altra persona che cercava di soccorrerlo. Si trattava con tutta probabilità di un medico perché sapeva di non dover toccare il ferito. Inconsciamente ho messo a fuoco il volto contorto dal dolore di quell’uomo sofferente e in un attimo tutti gli astanti mi sono saltati addosso. Nella foto si vede chiaramente il gesto di un carabiniere che, scavalcato il corpo dell’operaio, mi viene incontro per impedirmi di scattare fotografie.
Parlamentari e portaborse mi urlavano contro, dandomi dell’avvoltoio. Fui difeso soltanto da un giornalista di destra che disse: “Ma no, questo è Tano, che da cinquant’anni fa queste foto!”. Per tutta risposta si levò un coro sprezzante che diceva: “Bel lavoro”, come se l’oscenità fosse fare in modo che si vedessero certi drammi del nostro Paese e non il dramma stesso della morte sul lavoro, arrivata fino al centro di Roma.
Tra le urla di tutti sopraggiunse un’ambulanza e feci di tutto per incrociare lo sguardo del paramedico che chiudeva la portiera. Quell’infermiere colse la domanda implicita nei miei occhi e scosse la testa, a dire che quell’incidente non avrebbe avuto un esito positivo.
Ora che hai pronunciato la parola avvoltoio in questo contesto mi è venuta in mente la famosa fotografia The Vulture and the Little Girl , scattata da Kevin Carter nel 1993 durante l’apartheid in Sud Africa. Il fotoreporter fu accusato di aver dato priorità alla cinica acquisizione di un’immagine sensazionale piuttosto che alla necessità di soccorrere la bambina ripresa.
A prescindere da tutto in quel contesto bisogna che si cacci l’avvoltoio. Io avrei voluto un avvoltoio da cacciare in piazza Montecitorio, ma gli avvoltoi in quel caso erano tanti. Sono stato infermiere di pronto soccorso sotto le armi e anche quell’esperienza mi ha insegnato che in primo luogo si presta soccorso alla donna, all’uomo o all’animale che ne ha bisogno e solo dopo si pensa all’immagine. Spesso i fotografi si convincono della necessità di raccontare una situazione puntando su rischio, sangue e violenza, ma bisogna essere cauti e responsabili su questo fronte.
E nel caso di un tema così concreto come quello della sicurezza sul lavoro si può ottenere la sensibilizzazione delle masse – che è il fine ultimo della competizione – con un’immagine astratta anziché con una fotografia d’impatto?
Certamente. Io amo i miei colleghi del passato, del presente – e spero del futuro – che riescono a raccontare il dolore del mondo in modo alternativo, penso ad esempio alle nuvole di Stieglitz. Credo molto nell’astrattezza delle immagini e nelle numerose possibilità che abbiamo di affrontare e rappresentare le cose più orrende.
Dunque possiamo essere ottimisti sulla capacità dei più di cogliere messaggi importanti anche attraverso immagini meno crude?
Assolutamente sì. L’ultima volta che capitò qualcosa del genere era in corso il primo sciopero in un call center del quartiere Eur di Roma. Possiamo dire che si trattava di un evento senza precedenti e la polizia di tutta Europa era lì per studiare il fatto. Successivamente ci fu un processo e fui chiamato con urgenza per comparire davanti a un giudice. Mi si chiedeva se avessi memoria di impiegati che gettavano dalle finestre dei fogli di proprietà del call center. Raccontai ciò che meglio ricordavo di quell’avvenimento, cioè di una giovane madre che correva lungo le scale antincendio sbottonandosi la camicetta per allattare il figlio passatole attraverso le sbarre di una cancellata. In seguito alla mia testimonianza il giudice parlò col pubblico ministero dicendo che il processo era chiuso. Non si poteva parlare di fogli che volano di fronte alla violazione dei più elementari diritti umani.
Perciò in alcuni casi bastano le parole?
Le parole che parlano delle immagini. Solitamente immagini e parole sono linguaggi opposti: l’immagine è un punto di partenza, mentre quando si parla si ha già un pensiero in mente. Talvolta occorre essere un po’ poeti, perché solo i poeti sanno affratellare i due linguaggi.
L’ intelligenza artificiale, argomento scottante di questo periodo, potrebbe produrre qualcosa di buono nell’ambito di questo concorso?
L’uomo ha sempre avuto una sorta di smania di liberarsi della propria umanità, ne è un esempio lo sforzo di mettere telecamere ovunque perché queste facciano la verità. Ma la verità non sarà mai frutto di una macchina, perché la verità non è registrare quello che capita, bensì saper mettere quello che capita nel cuore delle persone e farle partecipare. Una macchina non lo farà mai, tantomeno l’intelligenza artificiale.
E se si utilizzasse l’intelligenza artificiale per creare quelle immagini che sarebbe difficile realizzare sul campo per far passare comunque un messaggio importante?
Una volta mi venne proposto dal mio amico, maestro e collega Tazio Secchiarioli di lavorare nel cinema. Dopo averci pensato per una notte rifiutai, perché ciò che più amo del mio lavoro è l’imprevedibilità e l’insieme di spunti che mi regala la realtà. Nel cinema devi pensare prima a quali situazioni costruire, e in questo c’è affinità con un software di intelligenza artificiale a cui dare delle precise istruzioni. Non fa per me, io preferisco mischiarmi con il reale e lasciarmi sorprendere anche nelle situazioni più drammatiche. Un giovane che volesse raccontare ciò che non può fotografare direttamente sul posto di lavoro potrebbe trovare soluzioni alternative, ad esempio fotografando sé stesso, a casa, che stenta ad addormentarsi dopo aver vissuto un rischio. L’immagine fotografica è bella perché offre innumerevoli alternative espressive.
Hai la sensazione che ci siano tanti giovani fotografi che si dedicano a temi simili a quello del concorso?
Purtroppo no. La fotografia può servire a raccontare ciò che si vive e si vede, ma se non si vede e non si vive non si ha un punto di partenza per esprimere qualcosa. L’artista, mi insegnavano a scuola, è colui che più si mischia con un periodo per rappresentarlo.
Vorrei vedere più giovani che si mischiano col presente e che fanno sentire la propria voce, anche per mezzo delle immagini. Sarebbe bello poter osservare e valutare il loro lavoro grazie a questo concorso.
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