Olivo Barbieri ha sempre pensato al paesaggio e alla fotografia come momento di riflessione sulla natura dell’immagine, sul suo valore di rappresentazione. Le sue immagini accostano, infatti, elementi reali ad artifici, a immagini di immagini, a prospettive che distorcono la scala reale delle cose.
Quando arrivò per la prima volta in Cina, nel 1989, trovò davanti a sé una realtà stimolante, frenetica, veloce, che cercò di cogliere secondo la sua esperienza e quella riflessione sull’immagine che aveva investito il decennio precedente.
In Cina Barbieri tornò diverse volte in trent’anni. La mostra Olivo Barbieri. Spazi Altri, a cura di Corrado Benigni, alle Gallerie d’Italia di Torino dal 20 febbraio al 7 settembre, congiunge i tre decenni della sua attività nel Paese orientale, in una carrellata di immagini in cui il progresso cinese entra in dialogo con l’evoluzione del linguaggio dell’autore di Viaggio in Italia, che abbiamo intervistato.
La mostra si intitola Olivo Barbieri. Spazi Altri, “altri” rispetto a cosa?
Non “altri spazi” che avrebbe una connotazione dichiaratamente alternativa. Prendo il titolo da Spazi Altri. I luoghi delle eterotopie di Michel Foucault: “Luoghi reali ma che corrispondono ad utopie effettivamente realizzate. Esse sono luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo anche se perfettamente localizzabili”. Credo che la locuzione “Spazi Altri” descriva bene quanto avvenuto in Cina dal 1989 ponendo in essere l’esplosione della città asiatica, la propensione ad un pragmatismo dissimile da quanto codificato in occidente.
Citando il 1989 si riferisce ai fatti di piazza Tienanmen?
Mi sono trovato in Cina per la prima volta proprio durante i fatti di piazza Tienanmen, ma al di là di quel terribile evento, il 1989 fu per la Cina un anno di grandi cambiamenti sociali, politici ed economici. Dalla Cina di Mao, dalla rivoluzione culturale, sostenitrice, secondo gli ideali marxisti, che il concetto di proprietà fosse un furto, si è passati all’idea che arricchirsi fosse un processo glorioso. C’è stata una liberalizzazione del mercato simile a quella occidentale, ma con procedure diverse, data l’identità politica ed economica differente della Cina.
Come questi cambiamenti politici, economici e sociali si riverberarono anche nell’immaginario del Paese?
È stato un periodo magico per la Cina, che paragono, per certi aspetti, agli anni del primo dopoguerra in America, quando New York è diventata il modello della modernità e si è costruito un mondo che prima non esisteva, sia da un punto di vista urbanistico che culturale. In Cina successe una cosa simile, ma con una magnitudo forse maggiore, data la grandezza del Paese e la percentuale dei suoi abitanti, e soprattutto con una repentinità che nessuno si aspettava. In particolare, dal 1989 ai primi anni 2000 la Cina sembrava un luogo dove tutto poteva accadere e dove ogni cosa, ogni idea, poteva essere realizzata. Era incredibile l’energia sprigionata dalle persone e dalle cose.
L’esposizione alle Gallerie d’Italia di Torino è la sintesi del suo sguardo sulla Cina in oltre trent’anni. Come la specificità del suo linguaggio ha incontrato i cambiamenti che hanno investito il Paese?
Quando sono arrivato in Cina la prima volta, nel 1989, ho cercato di capire come fosse gestita l’idea di spazio, perché ogni cultura ha la propria. Poco prima di partire, ad esempio, avevo prodotto un lavoro in cui mettevo a confronto l’idea di spazio in Italia e in Francia, cercando di rivelare le minime differenze. Poi ho proseguito questa ricerca con un confronto tra Francia e Belgio. Questa modalità di lavoro l’ho adottata anche per il viaggio in Cina, anche se in quel caso non era un confronto visivo, ma un confronto come strumento di comprensione.
Così, ad esempio, ho comparato l’utilizzo dell’illuminazione artificiale nelle città europee con quella della Cina. Poco tempo dopo, infatti, ho pubblicato un libro intitolato Illuminazioni artificiali, per rendere visibile la relazione tra questi due mondi. Una volta la Ville Lumière era Parigi, in quegli anni era Shanghai.
L’evoluzione del mio linguaggio e l’evoluzione del cambiamento che ha investito la Cina sono andate di pari passo. Cercavo di sfruttare quello che negli anni capivo con la mia ricerca sulla natura delle immagini, per decifrare quanto mi circondava anche in Cina.
Questa accelerazione della Cina come l’ha tradotta visivamente?
Negli anni, ho dilatato le possibilità percettive servendomi degli sviluppi tecnologici possibili: prima, con l’analogico, portandolo cromaticamente alle estreme conseguenze; poi, dal 2007, col colore digitale e le modalità innovative che facilmente permette, come le esposizioni multiple, la convivenza di negativo e positivo, allontanandomi dall’univoca presunta fattualità attribuita alle immagini meccaniche.
La luce, nelle sue immagini, è un elemento visivamente fondamentale. Simbolicamente che valore ha?
La luce, nelle immagini, credo non esista, esistono i colori che ci assalgono. Sono un po’ restio a credere, come si propugna universalmente, che la luce sia determinante. In verità ciò che vediamo in un’immagine non è luce ma tempo. Simbolicamente ciò che chiamiamo luce è la visualizzazione dell’immagine del reale, e meno è incombente e qualificante, meglio è. Quella artificiale, invece, permette di intravvedere il senso che un luogo vuole comunicare.
Che valore ha la rappresentazione del concetto di tempo nelle sue fotografie?
Nelle immagini, probabilmente, tutto è tempo, lo spazio possiamo in qualche modo gestirlo o immaginarlo, il tempo non lo comprendiamo. Forse da qui l’attrazione incondizionata che abbiamo per le immagini. In un certo senso sono indecifrabili, come il tempo.
Cosa sta alla base della sua ricerca visiva?
Mi sono sempre chiesto e ho sempre chiesto a chi guarda le fotografie perché le immagini ci stupiscano così tanto e più ci stupiscono più ne vogliamo e poi ci stupiamo se sono troppe. Perché siamo attratti dalle immagini? Questa domanda è alla base del mio lavoro e, nel tempo, ne ho indagato il senso con diverse possibilità percettive. La mostra alle Gallerie d’Italia di Torino sulla Cina racchiude tutte le modalità di indagine della mia ricerca: dalle immagini dall’elicottero – secondo il cui sguardo ho colto più di sessanta città, metropoli e megalopoli – all’illuminazione artificiale tra oriente e occidente, dalla rilettura delle opere d’arte nei musei cercandone una terza dimensione alla miniaturizzazione di brani architettonici o di paesaggio.
Come l’utilizzo della postproduzione e delle alterazioni digitali si sono inserite nel suo pensiero fotografico?
La postproduzione e le alterazioni digitali permettono di volta in volta di vedere di più rispetto a quanto sapevamo. Prima dell’intelligenza artificiale generativa tutte le immagini ci apparivano veritiere, ora sappiamo che tutte le immagini non lo sono, che non lo sono mai state.
Ci può raccontare, nello specifico, come ha prodotto Harbin, China 2010 e cosa simboleggia?
Harbin, China 2010 è un’opera complessa sia per la ripresa che per la restituzione. È il risultato di una costruzione visiva che tenta di immaginare le possibilità dell’intelligenza artificiale. Sono sempre stato attratto, infatti, dal testare il progresso tecnologico come espressione del tempo in cui siamo.
Siamo in inverno, di notte, e le temperature oscillano dai -20 °C ai -40 °C. Le singole immagini che la compongono sono tante, positivi e negativi, ricomposte per restituire in tre pannelli una prospettiva corretta. Appare sintetica per scala e disegno.
La forma e le dimensioni sono inalterate. Rappresenta due rotonde e l’arteria di entrata/uscita della città di Harbin.
Credo che mi attragga perché può sembrare una maquette immaginifica e irreale sul tavolo di un urbanista. C’è chi l’ha paragonata agli occhi degli stupa nepalesi, monumenti buddisti sui cui lati sono solitamente dipinti quelli che vengono definiti “gli occhi di Buddha”.
La sacralità di questa analogia mi fa venire in mente la sua monografia sui megaliti in Bretagna e in Sardegna. C’è una connessione tra il valore ancestrale racchiuso in quelle costruzioni megalitiche e la produzione di immagini come Harbin, China 2010?
Davanti al “grande costruito” lo stupore è lo stesso. Guardando un enorme megalite, è istintivo pensare al fatto che sono passati migliaia di anni dalla sua creazione e che è ancora lì quasi intatto, e ci si chiede, altrettanto istintivamente, come abbiano potuto issarlo e perché lo abbiano fatto. L’interrogativo è lo stesso che si pone davanti all’immagine della città cinese, Harbin, China 2010.
Olivo Barbieri. Spazi Altri
- A cura di Corrado Benigni
- Gallerie d’Italia, piazza S. Carlo, 156 – Torino
- dal 20 febbraio al 7 settembre 2025
- mar, gio, ven, sab, dom 9.30-19.30; mer 9.30-20.30. Lunedì chiuso
- intero 10 euro; ridotto 8 euro
- www.gallerieditalia.com
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