Le ottiche “macro” sono tali perché possono mettere a fuoco a distanza molto ravvicinata, così da cogliere dettagli e aspetti pittoreschi e interessanti di un mondo minore, solitamente trascurato. Ripercorriamo l’evoluzione di questa categoria di obiettivi, partendo dalla sua genesi e soffermandoci sui modelli più significativi.
Per macrofotografia si intende comunemente un’immagine colta a distanze brevi che inquadri a pieno formato un soggetto di ridotte dimensioni. La definizione è piuttosto generica e si basa sul rapporto di riproduzione del soggetto, ossia sulle dimensioni che questo presenta sul fotogramma (che per comodità intenderemo di 24x36mm, fermo restando che per i formati minori va tenuto conto del relativo fattore di crop). La “zona di confine” rispetto alla normale fotografia si colloca convenzionalmente in corrispondenza del rapporto di riproduzione di 1:10, ossia nella condizione in cui il soggetto presenta, sul fotogramma, dimensioni pari a un decimo di quelle reali. Per i puristi, a questi livelli siamo nel campo del close-up, mentre la macro vera e propria si ottiene con rapporti di riproduzione di almeno 1:2 (quindi con dimensioni del soggetto sul fotogramma pari alla metà di quelle reali), per poi proseguire verso la soglia dell’1:1 e avventurarsi pure in ingrandimenti superiori. Del resto, non è un caso che le ottiche che si fregiano a giusta ragione della qualifica di “macro” (o talvolta “micro”) possano raggiungere ingrandimenti di 1:2 e 1:1 (e, in rari casi, andare oltre) senza dover essere abbinati a specifici accessori.
Questione di distanza
La capacità di focheggiare a distanza ravvicinata, in effetti, si può ottenere anche con attrezzature normali: il “trucco” è aumentare il tiraggio dell’obiettivo (ossia lo spazio che lo separa dal piano di fuoco) interponendo sistemi di prolunga quali soffie ttiotubiche,comunque,fa nnoperderelapo ssibi lità di messa a fuoco sulle distanze superiori; in alternativa si possono montare davanti all’ottica lenti addizionali positive, soluzione economica che comporta, però, cali qualitativi (difetti di curvatura di campo, aberrazione cromatica, astigmatismo). Le aziende iniziarono a progettare obiettivi macro proprio per superare queste problematiche, offrendo strumenti in grado di mettere a fuoco su qualsiasi distanza e affrontare qualsiasi genere fotografico, ma con gruppi di lenti appositamente ottimizzati per il range della ripresa ravvicinata. I capisaldi della loro evoluzione furono l’uso di schemi ottici studiati per la macro, il progressivo incremento della massima apertura relativa (agli albori limitata a f/3,5, poi negli anni aumentata fino a f/2), l’introduzione di gruppi ottici flottanti (prima singoli e poi multipli) per ottimizzare resa e planeità di campo ai vari ingrandimenti. All’inizio le focali macro erano in “zona normale”, quindi in genere 50, 55 o 60mm; successivamente arrivarono i medio-tele e i tele, che davano la possibilità di lavorare alla giusta distanza da soggetti difficilmente a vvicinabili (e/o i lluminabili), e che come tutte le lunghe focali si giovarono della crescente diffusione dei vetri ED a bassissima dispersione, i quali riducevano l’aberrazione cromatica. Non sono mancati, infine, modelli speciali per ingrandimenti molto spinti, “esperimenti” a ingrandimento variabile e neppure gli zoom.
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