Rodney Smith non scattava ritratti tradizionali. I suoi soggetti bizzarri facevano cose bizzarre, in scenari piuttosto surreali, scollati dal tempo. Diceva che gli piaceva respirare l’umorismo del mondo ed è indubbio che le sue fotografie siano una poetica materializzazione di tale attitudine.
I personaggi ambigui e le affascinanti narrazioni sospese del fotografo newyorchese sono in mostra a Palazzo Roverella di Rovigo fino al 1° febbraio 2026, nell’esposizione intitolata Rodney Smith. Fotografia tra reale e surreale.
La curatela della mostra è di Anne Morin, che abbiamo intervistato per farci guidare nella lettura di un autore brillante e della sua opera universalmente apprezzata.
Cappelli, abiti eleganti, persone di spalle, scene surreali: tanti elementi che fanno pensare a uno dei protagonisti della pittura surrealista…
Gli elementi che compaiono nelle fotografie di Rodney Smith hanno connotazioni significative. Non solo alludono alla fotografia stessa o a motivi radicati nella storia dell’arte, come la bombetta, che evoca immediatamente i dipinti di Magritte, ma anche a oggetti che spesso hanno un significato psicoanalitico, in particolare nelle teorie di Freud. Porte, finestre, ombrelli: tutti questi elementi possiedono un simbolismo forte e ambiguo, che ci indirizza inevitabilmente verso un senso di ‘altrove’.
Che tipo di fotografie scattava, invece, il giovane Rodney Smith?
I primi incarichi di Rodney Smith consistevano nel realizzare ritratti di personalità di spicco delle principali aziende americane. Si trattava quasi di una collezione di ritratti ufficiali, una galleria richiesta dalle grandi società. In quel momento, Smith sentì il desiderio di trasmettere una dimensione psicologica attraverso quelli che dovevano essere essenzialmente ritratti fisiognomici. In questa dualità riecheggia l’approccio di Arnold Newman, di Cecil Beaton e, a volte, di Horst P. Horst. C’era davvero l’intenzione di catturare quella che Félix Nadar chiamava una ‘somiglianza intima’, per rivelare qualcosa del carattere del soggetto al di là del semplice aspetto esteriore.
Quali grandi protagonisti della fotografia e del cinema hanno influenzato lo stile di Smith?
Le influenze cinematografiche di Rodney Smith derivano sia dai registi, sia dagli attori. Si può, ad esempio, percepire un legame particolare con il regista [oltreché attore e illusionista, n.d.r.] dell’inizio del XX secolo Georges Méliès, in particolare con il suo film Viaggio nella Luna. Nel film, Méliès appare come un illusionista che, sebbene intenzionato a farci credere qualcosa, lascia sempre intravedere le acrobazie visive dietro l’illusione, i trucchi e gli oggetti di scena che ci ricordano che, dopotutto, si tratta di un gioco.
Innegabile anche l’influenza di Alfred Hitchcock, che si ritrova soprattutto nel senso pervasivo di mistero e sospetto. Nelle immagini di Smith non sappiamo mai bene cosa sia appena successo o cosa stia per succedere; tutto rimane avvolto nell’ambiguità di una narrazione compressa in un unico fotogramma, che lascia allo spettatore il compito di continuare il film che ogni fotografia si limita ad iniziare. Questa ambiguità ci ricorda l’atmosfera del film noir degli anni ’30 e ’40. Tangibile, inoltre, la presenza di personaggi come Charlie Chaplin e Buster Keaton.
Spesso gli scatti più enigmatici di Rodney Smith sono commissionati dalle case di moda, ma i soggetti non sembrano affatto i “soliti” modelli. È una scelta vincente?
Molto spesso nelle fotografie di Smith i personaggi ritratti sono anonimi, col volto nascosto. In un certo senso sono degli specchi, prototipi di esseri umani con una dimensione estetica distinta, ma privi di qualsiasi identità specifica.
Smith sembra intenzionato a cancellare molti elementi, compresa la nozione di tempo, e guardando i suoi scatti è impossibile dire se la scena si è svolta nel 1920, nel 1980 o nel 1850.
Non c’è alcun senso tangibile di temporalità, nessuna stagione, nessun tempo atmosferico, nessun momento della giornata. Le ombre sono cancellate e i modelli sono ridotti a sagome. In questo modo, Smith elimina tutti i dettagli superflui, proprio come un narratore che si concentra sull’essenza di una storia piuttosto che sui suoi minimi particolari. Attraverso queste figure universali, il fotografo invita anche ogni spettatore a vedere sé stesso riflesso nell’immagine, a trovare una parte della propria identità in questi personaggi senza tempo e senza volto.
È vero che il suo processo creativo partiva dalla ricerca della location?
Uno degli aspetti più essenziali del lavoro di Smith è la location. Era sempre lui a scegliere l’ambientazione per una commissione, a meno che, per caso, non si imbattesse in un luogo particolare durante una passeggiata. In questi casi, era il luogo stesso a dettare, in un certo senso, l’immagine. Smith non delegava mai questo compito, perché per lui era fondamentale percepire lo spirito del luogo, come se fosse abitato da qualcosa di stimolante, qualcosa che potesse dare origine a un’immagine.
Una volta trovato, visto e percepito il luogo, entravano in gioco tanti altri parametri: il tempo, l’ora del giorno e la disposizione spaziale complessiva, che coinvolgeva tutto il suo team e il set. Smith poteva passare ore a cercare di costruire, modificare e perfezionare una scena, per poi abbandonarla – in certi casi – senza scattare nemmeno fotografia.
Proprio mentre raccoglieva le sue cose per andarsene, poteva capitare che, spostandosi di qualche metro, riuscisse a trovare l’ispirazione e a catturare un’immagine in pochi minuti.
Tutto nel suo processo apparteneva al regno della costruzione spontanea, riecheggiando magnificamente l’affermazione di André Breton secondo cui il surrealismo emerge per caso e attraverso la spontaneità. Le immagini di Smith dovevano essere realizzate rapidamente, erano radicate soprattutto in una comprensione intuitiva della realtà.
Rodney Smith studiò teologia all’università. Crede che questo abbia in qualche modo influito sul suo modo di fare fotografia?
Non c’è dubbio che gli studi di filosofia e teologia intrapresi da Smith a Yale lo abbiano introdotto in una dimensione più profonda della realtà. Le sue fotografie esprimono il desiderio di accedere a un altro mondo al di là della superficie delle cose, al di là delle apparenze mistiche, riflessive ed estetiche. Come disse Leonardo da Vinci, ‘L’arte è una cosa mentale’. Questa dimensione intellettuale era centrale nella visione di Smith.
Le sue letture di Nietzsche e Kierkegaard, il suo legame con la storia della pittura olandese, la sua passione per Hemingway e la sua contemplazione di immagini fisse e in movimento hanno creato il terreno fertile per la sua elaborazione di una visione incentrata su un regno al di là del reale, un luogo più elevato e più intellettuale, del tutto affine al contenuto della poesia The Hollow Men di T. S. Eliot.
Qual era l’attrezzatura di Rodney Smith? Che rapporto aveva con la luce?
Rodney Smith lavorava con una fotocamera di grande formato 8×10 o 4×5, e successivamente con una Rolleiflex. Sceglieva sempre strumenti che richiedevano pazienza e ponderatezza nella creazione di un’immagine. Non si affidava mai alle veloci 35mm comunemente utilizzate nel fotogiornalismo. Al contrario, preparava la sua fotocamera come un pittore preparerebbe un cavalletto e una scatola di colori. Tutto nel processo fotografico di Smith era eseguito con meticolosa cura e precisione, sebbene il suo rapporto con la luce fosse quasi istintivo. In questo senso Smith somigliava al pittore inglese John Constable, che, essendo lui stesso una sorta di contadino, era in grado di prevedere il tempo e sapeva esattamente quando sistemare il suo cavalletto all’aperto per catturare una luce particolare, il passaggio delle nuvole, il movimento del vento. Smith aveva un dono simile: un’innata capacità di percepire il momento perfetto per cogliere la luce.
Quante sono le fotografie in mostra a Palazzo Roverella e come sono organizzate?
La mostra di Rodney Smith a Palazzo Roverella è strutturata in diversi gruppi tematici. In sostanza, segue un’architettura che rispecchia i capitoli e gli stati d’animo presenti nelle immagini di Smith, collegando il reale e il surreale, la proporzione divina, le soglie e i passaggi, gli specchi, il tempo e la gravità. Ciascuna di queste sezioni rivela come Smith, attraverso la fotografia – un’arte dell’indice, come la definisce Roland Barthes ne La Camera Chiara (1980) – esplori il legame tra realtà e immagine. Barthes afferma che senza realtà non può esserci immagine, ma la straordinaria impresa di Smith consiste proprio nel trascendere questo principio. Egli dichiara, in effetti: ‘non solo la fotografia è l’arte dell’indice e una riproduzione della realtà, ma io, come mago e illusionista, sono in grado di farvi credere che un’immagine possa anche riflettere l’irreale, il soprannaturale o il surreale’. Questo è ciò che rende il lavoro di Smith così affascinante: la sua capacità di eseguire una sorta di magia visiva, utilizzando un mezzo radicato nel reale per evocare il regno del surreale.
Potrebbe descrivere una delle fotografie presenti in mostra che ritiene particolarmente significativa?
Un’immagine particolarmente emblematica mostra una figura vestita di bianco, con un cappello in testa, che salta sopra una balla di fieno con le braccia protese all’indietro, come se stesse volando. I personaggi di Smith incarnano spesso questa nozione di elevazione, di umanità che tende al divino. Sono, in un certo senso, dei moderni Icaro che tentano di raggiungere il sole o Dio, ma inevitabilmente ricadono, vincolati dalla gravità, una condizione intrinseca dell’essere umano. L’uomo non può sfuggire alla gravità a meno che non diventi un angelo, librandosi nel regno divino, nell’eternità.
Questa tensione tra ascesa e caduta è costante nel mondo di Smith. Non possiamo mai dire con certezza se i suoi personaggi stiano decollando o scendendo: sta a noi decidere se guardarli con ottimismo o pessimismo.
L’immagine stessa è ‘reale’ nel senso più puro del termine, cioè raffigura un momento reale catturato dalla macchina fotografica di Smith, senza alcuna manipolazione o alterazione meccanica della realtà. L’autore ha lavorato esclusivamente con la fotografia analogica, senza Photoshop, senza correzioni digitali e certamente senza intelligenza artificiale. Smith era quindi un illusionista, non un ingannatore, qualcuno che utilizzava la verità della realtà per farci credere nell’impossibile.
Rodney Smith piacerebbe alle nuove generazioni?
Quando il gruppo dei surrealisti francesi, guidato da André Breton, fondò il movimento surrealista nel 1924, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, cercò di far credere nuovamente nelle utopie, nel mondo delle idee, in un regno elevato e mistico che, come scrisse Paul Éluard, ‘esiste proprio in questo mondo’.
Rodney Smith condivideva lo stesso impulso, e probabilmente questo lo renderebbe interessante agli occhi delle nuove generazioni. Come i surrealisti, mirava a farci credere, ad aprire le porte all’immaginazione e alla trascendenza, a incoraggiare un viaggio personale e intellettuale verso la ricchezza interiore. Le sue immagini fungono da portali verso un mondo più sensibile e invisibile.
Ulteriori informazioni sulla mostra Rodney Smith. Fotografia tra reale e surreale sono disponibili sul sito palazzoroverella.com.
Titolo Rodney Smith. Fotografia tra reale e surreale
A cura di Anne Morin
Formato 24x28cm
Pagine 168
Lingua italiano, inglese
Prezzo 32,30 euro
Editore Silvana Editoriale
Data di pubblicazione ottobre 2025
Copertina rigida
ISBN 9788836658879
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