Pagando il prezzo di essermi messo in casa oggetti tecnologici “sempre in ascolto”, che sanno esattamente cosa desidero prima ancora che io lo pensi, quest’anno ho messo sotto l’albero una di quelle coloratissime toy-camera a tema Disney o popolate da supereroi. Ero convinto di regalare a mio figlio uno strumento per aiutarlo a esprimersi, un gioco con il quale imitare il suo papà e, perché no, ritardare la sua sicura dipendenza dallo smartphone. Invece, forse, l’ho solo cacciato nei guai.
Il dubbio mi è venuto quando un conoscente mi ha sbattuto in faccia la realtà. Anche lui, animato dalla mia stessa passione e spinto dalla medesima logica, aveva regalato al figlio di 4 anni una di queste fotocamere per il compleanno. Il bambino, entusiasta di avere tra le mani un “giocattolo” proprio come quelli usati dal suo papà, il giorno successivo si è lanciato con entusiasmo nel documentare il suo mondo: i giochi, la classe dove passa metà della giornata, perfino qualche spontaneo abbraccio con i compagni. Tutto meravigliosamente bello, fino al rimprovero severo di una maestra troppo distratta per accorgersi di quell’innocente strumento già dalle prime ore della giornata. Il motivo? La privacy. Secondo la scuola, infatti, il colpevole paparazzo in erba non doveva permettersi di fotografare i locali dell’edificio, tanto meno gli altri minori. E non finisce qui: al rimprovero verbale è seguita la cancellazione immediata di tutti gli scatti e il sequestro dell’oggetto.
Ora, capisco che oggi il solo pensiero di un minore in grembiule immortalato digitalmente faccia scattare i protocolli di sicurezza nazionale. Ma non pensavo che anche la divulgazione di qualche scarabocchio a matita potesse rappresentare un potenziale pericolo per l’integrità del patrimonio scolastico italiano. Sarcasmo a parte, questa vicenda mi fa riflettere profondamente su ciò che rimane oggi della condivisione delle passioni e del ruolo stesso dell’insegnamento. Siamo arrivati al punto in cui il rispetto della norma senza interpretazione – voglio pensare, alimentato dalla paura di reprimende professionali o strascichi legali – schiaccia sul nascere il germe della creatività.
In un’epoca in cui i bambini sono ipnotizzati da contenuti passivi, una maestra avrebbe dovuto lodare un suo alunno di soli 4 anni già capace di osservare la realtà attraverso una fotocamera, di scegliere un istante e decidere di conservarlo. È un gesto di una rarità preziosa, quasi rivoluzionaria di questi tempi e a questa età.
Quelle foto non andavano distrutte: andavano stampate. Dovevano essere appese in classe come testimonianza di momenti felici e di condivisione. Mostrate ai genitori di tutti i bambini della classe. Si sarebbe potuto comunque spiegare il valore del rispetto degli altri proprio partendo dalla bellezza di uno scatto, non con la paura trasmessa dalla sanzione. Se la scuola diventa il luogo dove il timore della norma prevale sul riconoscimento di un talento o di una curiosità nascente, allora stiamo scambiando la protezione dei minori con l’inaridimento della loro anima. E questo, forse, è un pericolo ben più grave di una foto mossa scattata tra i banchi di un asilo.
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