Roma
Dal 3 dicembre 2025 al 16 gennaio 2026
L’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione – ICCD festeggia il suo cinquantesimo anniversario con un omaggio a un fotografo, rimasto incomprensibilmente un po’ in sordina rispetto ad alcuni suoi colleghi del secondo dopoguerra: Piergiorgio Branzi. Forse il lungo periodo di stop dalla fotografia, durante il quale l’autore toscano si è dedicato maggiormente all’attività giornalistica, forse uno stile non conforme, una sua idea molto personale e consapevole sulla costruzione visiva, hanno portato la sua cifra stilistica a non essere valutata a dovere.
La mostra Piergiorgio Branzi. Verso sud, a cura di Francesca Fabiani e visitabile fino al 16 gennaio 2026, ripercorre i primi passi, nel Meridione del nostro Paese, del Branzi fotografo. Incuriosito da un nuovo spirito di libertà dopo la conclusione della guerra, negli anni Cinquanta Branzi scese più di una volta nel sud Italia e diede avvio a quelle che sono state delle vere e proprie prove di uno stile forgiato dalla materia umana e da un profondo senso di equilibrio compositivo.
Nel 2023 l’ICCD ha acquisito la parte di archivio di Piergiorgio Branzi relativa ai suoi viaggi verso il sud Italia e questa esposizione si rende palcoscenico non solo dell’opera del fotografo ma anche del metodo di lavoro che l’Istituto ha compiuto su quel corpus di immagini, composto da un folto gruppo di stampe vintage e non solo. Abbiamo parlato con Francesca Fabiani per farci raccontare come il team dell’ICCD si sia mosso per catalogare, documentare, archiviare, valorizzare e promuovere la cifra stilistica di Piergiorgio Branzi.
Il corpus di immagini in mostra segna gli esordi fotografici di Piergiorgio Branzi. Quale è la storia dietro a questo lavoro?
I materiali in mostra sono riferibili ai viaggi di Branzi nel sud Italia, nel corso degli anni ’50, il suo periodo fotograficamente più fecondo. A 25 anni, dopo essere stato letteralmente folgorato da una mostra di Henri Cartier-Bresson, Branzi partì per il sud Italia in sella a una Moto Guzzi 500 rossa. Era il 1953, l’Italia era da poco uscita dalla guerra, le strade erano ancora dissestate, ma il giovane fremeva dalla voglia di conoscere il Paese e di raccontarlo con la macchina fotografica, una Ferrania Condor 35mm.
E così fu: Branzi si recò più volte al Sud e in altri luoghi del Mediterraneo e questi viaggi avventurosi rappresentarono per lui un’opportunità per misurarsi con contesti quasi sconosciuti di un Meridione lontanissimo eppure vicino, forse con il lungimirante presagio che le trasformazioni in atto ne avrebbero irrimediabilmente mutato le sembianze. Il risultato è una serie mirabile di ritratti ambientati e qualche raro paesaggio, composti in forme equilibrate ma fortemente espressive anche grazie a un uso audace del bianco e nero.
Il suo stile, infatti, rispetto all’approccio neorealista del tempo, si differenziava per una particolare attenzione alla composizione dell’immagine…
Sì, ovviamente il soggetto con cui Branzi si è rapportato è l’Italia del secondo dopoguerra, un Paese misero, arretrato, in parte da ricostruire, ma il suo approccio si discosta sia dal cronachismo di certa fotografia coeva, sia dalla fotografia di indagine antropologica, come pure dai toni sofferti del Neorealismo. Il suo è uno stile assai personale, capace di coniugare, con grazia e ironia, attenzione formale e partecipazione emotiva. Uno stile che lui stesso ha definito come ‘realismo formale’, perseguendo cioè l’equilibrio della composizione senza tradire il dato reale. Non dobbiamo dimenticare che lo ‘sguardo’ di Branzi si era formato a Firenze, nutrito dalla cultura visiva toscana, dal disegno prospettico all’equilibrio compositivo del Rinascimento e che egli fu in seguito anche pittore e incisore.
Questa caratteristica è riscontrabile, in maniera esemplare, nella sequenza che portò alla realizzazione di una delle fotografie più note di Branzi: Pasqua a Tricarico (1954-1957). Grazie ai negativi possiamo capire come si sia avvicinato progressivamente alla realizzazione di questa fotografia perfetta, nient’affatto ‘istantanea’. Nel capolavoro finale tutto è in equilibrio. Ogni elemento ha un senso ed entra in dialogo con il resto: la bambina, gli elementi sullo sfondo, la bilancia e, soprattutto, le due uova che emergono dall’ombra, vegliate dalla presenza diligente e pensosa della giovane lucana che negli occhi ne richiama forma e biancore. Dunque, la sequenza di questi negativi e delle diverse prove di stampa, che abbiamo voluto esporre in mostra nella sezione Lo scatto, ci fa capire con chiarezza quanto Branzi fosse lontano dalla teoria dell’‘istante decisivo’ di Henri Cartier-Bresson, pur riconoscendo apertamente il debito della sua fotografia umanista verso quella dell’illustre francese.
L’importanza di questa mostra è dovuta anche al fatto che rende visibile il modo con cui Branzi lavorava, il suo processo creativo, i meccanismi del suo pensiero visivo. Come ha congegnato, da curatrice, la progettualità dell’esposizione?
La mostra è stata strutturata in varie sezioni: lo scatto, antologia, carotaggi, provini, le stampe, il colore, recto verso, bibliografia. Queste sezioni intendono restituire non solo il lavoro più conosciuto e amato di Branzi, ma anche ciò che di inedito lo studio dei materiali d’archivio ha rivelato.
Il fondo archivistico è stato acquisito dall’ICCD nel 2023 grazie a un bando della Direzione Generale Creatività Contemporanea. Per un anno abbiamo lavorato all’ordinamento dei materiali – inventario, catalogazione, descrizione, condizionamento conservativo, digitalizzazione, pubblicazione on line – nonché allo studio di tutte le fonti bibliografiche, autografe, documenti originali. Il concept della mostra è nato dal desiderio di restituire ai visitatori le scoperte, le curiosità e le sorprese che lo studio dell’archivio ci ha riservato.
Le specifiche sezioni che portano a galla gli inediti di Piergiorgio Branzi sono presentate in mostra con un interrogativo fondamentale: “È possibile inserire, nell’eredità di un autore, delle immagini che lui stesso non aveva selezionato?”…
Esatto. Studiare un archivio è un’operazione di carotaggio che, come dicevamo, può riservare piacevoli sorprese. Anche nel caso dell’archivio di un maestro come Branzi, tra negativi e stampe vintage, sono emersi alcuni scatti che, sebbene non presenti nella sua personale antologia, non sembrano avere minor valore estetico, formale, documentario, dei capolavori più apprezzati.
Che fare, quindi? L’ interrogativo riguarda in senso più ampio il margine di arbitrarietà che può essere concesso a chi, dopo la scomparsa dell’autore, ha la possibilità e il dovere di valorizzarne l’opera.
Non sappiamo cosa impedì a queste fotografie di rientrare tra le ‘icone’ di Branzi, ma certamente dobbiamo tener conto del fatto che non ottennero lo stesso riconoscimento nel circuito espositivo, editoriale e collezionistico. Tuttavia, l’indiscussa qualità, la potenza espressiva e l’intelligente ironia di alcune immagini ci hanno spinto a condividere queste ‘scoperte’ con il pubblico, consegnando però al tempo stesso anche l’onere del quesito iniziale che rimane, pertanto, aperto.
Gran parte della produzione degli anni ’50, quella dei suoi viaggi al Sud, è costituita da ritratti ambientati. Come l’uomo, soggetto delle sue fotografie, dialoga con il contesto in cui è inserito?
È lo stesso Branzi a definire questi soggetti come ‘ritratti ambientati’, evidentemente con l’intento di sottolineare quanto il dialogo tra i personaggi e la loro ambientazione fosse importante non tanto per definire la loro dimensione sociale, quanto piuttosto psicologica.
In mostra avete riflettuto anche sul concetto di “autorialità”, in una specifica sezione, Recto Verso, che espone il retro delle fotografie di Branzi, costellate da diversi segni che indicano la sua paternità: la sua firma, timbri, iniziali e molto altro…
Il retro delle fotografie, come di qualsiasi documento, reca spesso tracce utili a precisarne il contesto di produzione e l’utilizzo. Le diverse modalità utilizzate da Branzi per certificare le sue fotografie se da un lato rischiano di provocare una sorta di vertigine per la quantità (e a volte contraddittorietà!) delle informazioni che forniscono, dall’altro rappresentano elementi di studio insostituibili. Abbiamo voluto creare una parete di wall paper per mostrare anche questi materiali ai visitatori.
Un’altra sezione della mostra è Le stampe. Nell’arco della sua carriera fotografica Branzi fu un attento sperimentatore, sia con varie tecniche di stampa sia con i materiali fotografici. C’è qualcosa che ci indica anche una sua preferenza?
La qualità delle stampe di Branzi, la resa scura, corposa e sofferta dei bianchi e neri, è un tratto distintivo del suo lavoro, unico, molto riconoscibile, che lo connota in senso fortemente espressivo. In più occasioni ha dichiarato che riteneva più importante ciò che si verificava in camera oscura rispetto al momento dello scatto. A fronte di una ridotta selezione di soggetti, è notevole, invece, la quantità di stampe che Branzi realizzò negli anni, che testimoniano la sua attitudine alla sperimentazione delle nuove tecniche e dei supporti che via via si affacciavano sul mercato, per verificare possibilità e risultati di quella che considerava come una delle fasi più delicate del processo fotografico. In mostra ci sono, ad esempio, stampe su carta Agfa Brovira e quelle ai sali d’argento.
Per quanto riguarda la strumentazione, cosa utilizzava?
Come dicevo inizialmente, la sua prima macchina fotografica è stata una Ferrania Condor 35mm, poi passò al formato 6×6, lavorò con la Leica per molto tempo; per la produzione dell’ultimo periodo, durante il quale tornò nuovamente al Sud, usò il digitale, su cui si è sempre espresso favorevolmente, soprattutto per la resa della stampa, per la profondità che riesce a conferire ai neri.
L’unica immagine a colori, prodotta nel 2008, presente in mostra, racconta di uno dei suoi ultimi viaggi al Sud, in provincia di Agrigento. Secondo quale processo la sua produzione più contemporanea diventò maggiormente sintetica?
Il colore rappresentò per Branzi – come per molti autori della sua generazione – una scelta tardiva, che nel suo caso coincise con il passaggio al digitale intorno agli anni Duemila, anche grazie agli stimoli dell’amico Nino Migliori. Si tratta in ogni caso di una produzione piuttosto esigua che in mostra è rappresentata da questa fotografia del 2008 che Branzi scelse di esporre quando venne invitato a partecipare al Padiglione italiano della Biennale di Venezia del 2011.
La fotografia testimonia il ritorno di Branzi nel sud Italia a distanza di 50 anni dai suoi primi reportage e ne costituisce il contrappunto poetico. Non solo per l’adozione del colore e del grande formato, ma perché appaiono mutati i soggetti di interesse e la distanza (ora ravvicinata) del guardare. Non più l’uomo nel suo ambiente, i paesaggi ampi e le strade animate, ma una serie di nature morte di oggetti semplici e un poco spaesati che emergono come tracce di abitudini scomparse. Elegie di un mondo arcaico, conosciuto e raccontato in gioventù.
Piergiorgio Branzi. Verso sud
- A cura di Francesca Fabiani
- Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione – ICCD, via di San Michele, 18 – Roma
- dal 3 dicembre 2025 al 16 gennaio 2026
- lun-ven 10-18
- ingresso gratuito
- iccd.beniculturali.it
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