Nato nel 1968 a Milano, Paolo Ventura è una delle voci più originali nel panorama della fotografia contemporanea italiana e internazionale. Una mostra retrospettiva e una nuova monografia ne ripercorrono gli ultimi, intensissimi, quindici anni di carriera illustrando le infinite sfaccettature della sua poetica.
L’intera storia della fotografia è costellata di autori che si sono espressi anche in altre discipline, dalla pittura alla scultura, dal cinema alla grafica fino alle arti performative. I primi nomi che vengono in mente sono quelli di Robert Frank, Man Ray, Henri Cartier-Bresson, Roger Ballen, Bruce Weber, Robert Mapplethorpe, Francesca Woodman, David LaChapelle, Yasumasa Morimura, Cindy Sherman, Thomas Demand e per restare in Italia basta ricordare le sperimentazioni più grafiche di Nino Migliori o Mario Cresci. Ed è proprio un italiano, il milanese Paolo Ventura, colui che sembra essere riuscito a esprimere meglio le possibilità di interazione tra la fotografia e le altre arti. Perché da circa venti anni (dopo una decade trascorsa a occuparsi di moda per riviste come Vogue, Elle e Marie Claire) il suo obiettivo agisce come un centro gravitazionale che attira all’interno del suo lavoro la scultura, la performance, la scenografia, il collage, la pittura. Non si tratta per niente di attività condotte parallelamente alla fotografia, ma di discipline e linguaggi cooptati per amplificarne le potenzialità espressive e soprattutto per svincolarla definitivamente dalla propria missione puramente documentaria e liberarla nella sua dimensione narrativa.
Immagini mentali
La libertà con cui Ventura si “muove” fra le diverse forme espressive non significa che prima di lui nessuno abbia mai raccontato storie attraverso le immagini fotografiche, bensì che per lui il racconto, anche quando è composto da un solo scatto, è più il frutto della necessità di proiettare all’esterno le proprie immagini mentali che la conseguenza dell’osservazione del mondo reale. Pertanto il processo creativo prende il sopravvento sulla vecchia idea che la fotografia dovrebbe limitarsi a copiare fedelmente ciò che sarebbe visibile a tutti e dunque anche la pittura o l’utilizzo di manichini al posto delle persone in carne e ossa diventano mezzi leciti per dare concretezza all’immaginazione dell’artista.
Walter Guadagnini, curatore della retrospettiva di Ventura in corso a Camera – Centro Italiano per la Fotografia di Torino, nell’introduzione al libro che l’accompagna, fa risalire agli Anni ‘70 la fine del “quarantennio di predominio della fotografia diretta e di reportage”. Fu in quel periodo che molti di coloro che elessero l’obiettivo come strumento di lavoro iniziarono a spostarsi verso il mondo dell’arte contemporanea, per cui le immagini iniziarono a essere sempre più costruite anziché semplicemente catturate.
Divenne sempre più accettabile recitare una parte per un autoritratto o disporre con la massima cura tutti gli oggetti necessari a simulare il disordine di una stanza abbandonata all’incuria; in pochi anni cambiarono le aspettative che si erano nutrite nei confronti della fotografia e si iniziò a prendere in considerazione l’idea che essa potesse documentare anche ciò che non è reale, ciò che è effimero non solo perché si manifesta nel fugace momento decisivo, ma anche perché non sarebbe accaduto senza l’intervento del fotografo. Dunque, secondo Guadagnini, quando nel 2005 Ventura si fa notare per la prima volta con i manichini della serie War Souvenir i suoi soggetti inanimati colti in scenografie di sua costruzione “non vanno considerati come una novità né operativa né concettuale, ma piuttosto come l’evoluzione e soprattutto l’interpretazione singolare e assolutamente originale di una tradizione ormai stabilmente presente sulla scena artistica internazionale”.
Multiforme
C’è un aspetto del lavoro di Paolo Ventura che lo contraddistingue e lo pone su un altro livello rispetto a quasi tutti i suoi colleghi: la varietà di tecniche e materiali con cui dà forma alle proprie idee, la libertà assoluta con cui si muove tra una disciplina e l’altra senza mai cristallizzarsi su un linguaggio specifico per paura di perdere il proprio marchio di fabbrica o di non compiacere galleristi e collezionisti. Se Cindy Sherman ha costruito tutta la propria carriera sulle infinite metamorfosi del proprio volto e Thomas Demand è immediatamente riconoscibile per i suoi interni in cartoncino, Ventura in meno di un ventennio si è espresso in una sorprendente molteplicità di modi.
I già menzionati manichini di War Souvenir e quelli di Winter Stories e The Automaton, il suo stesso volto e quelli della sua famiglia in Behind The Walls, Homage A Saul Steinberg, Ex-Voto e Grazia Ricevuta, e poi le vedute dipinte nelle frequenti reminiscenze della pittura italiana tra le due guerre mondiali, il collage, la composizione degli sfondi con moduli di carta colorata, i ritocchi a pennello, la ricerca di profondità attraverso la sovrapposizione di diversi materiali in alcune opere e l’appiattimento della prospettiva in altre: con queste e tante altre licenze poetiche Ventura ha scritto una propria antologia di racconti tra il surrealismo e il realismo magico vestendo di volta in volta i panni di attore, scenografo, costumista, scultore, pittore e, ovviamente, fotografo. Sicuramente sarebbe difficile stabilire, qualora avesse senso, se la sua produzione sia un’eresia oppure un’evoluzione della fotografia come è sempre stata tradizionalmente intesa; di certo vi è però che in un periodo storico come quello attuale, in cui si tende sempre più a volgere lo sguardo al passato per trovare autori dotati di originalità, Paolo Ventura emerge per il suo coraggio quasi naïf e per l’unicità della sua voce che, piaccia o no, rimette in discussione tutti i limiti che talvolta delineano la comfort zone di chi ha deciso di praticare l’arte contemporanea stando dietro a un obiettivo.
Le fotografie contenute in questo articolo fanno parte della mostra Paolo Ventura. Carousel
- Camera – Centro Italiano per la Fotografia
- fino all'8 dicembre 2020
- camera.to