Mitch Epstein. American Nature, in mostra alle Gallerie d’Italia fino al 2 marzo, si compone di tre produzioni a firma di Mitch Epstein, uno dei massimi esponenti della fotografia americana: American Power, Property Rights e Old Growth.
American Power parla apertamente e figurativamente dello sfruttamento della natura da parte dell’uomo ed è il risultato di un viaggio lungo l’America durato cinque anni, dal 2003 al 2008, durante il quale il fotografo ha raccontato i siti di produzione di combustibili fossili e di energia nucleare e il difficile dialogo con la popolazione che vive nelle vicinanze di questi luoghi.
Property Rights rappresenta una riflessione sull’appartenenza e sulla tendenza umana a sfruttare e prosciugare le risorse della Terra, focalizzandosi sulle storie degli anziani nativi americani della riserva Sioux di Standing Rock, che difendono una terra che il Governo e le imprese private vorrebbero fare propria; Old Growth, di cui si presenta in anteprima una parte commissionata da Intesa Sanpaolo, è una vera e propria immersione nella bellezza delle foreste vetuste americane, ultimo baluardo di natura selvaggia e primordiale.
Sempre attento al connubio tra ricerca estetica/compositiva e pensiero critico rispetto al mondo contemporaneo, Epstein lancia un monito all’umanità dei nostri giorni, richiamando l’attenzione sulla necessità di intervento per contenere le problematiche ambientali ed ecologiche. Abbiamo fatto due chiacchiere con l’autore per farci raccontare la sua mostra e il suo percorso fotografico.
Il titolo della mostra Mitch Epstein. American Nature è un titolo complesso. Cosa intende per “natura americana”?
Una natura al di fuori del mondo sociale umano, ripresa con un approccio fotografico tradizionale che indaga le foreste vetuste. Ma il lavoro è sicuramente più complesso di così. Riguarda le implicazioni e il dialogo tra la nozione psicologica della natura, della natura umana, della società e della psiche americana. Noi americani abbiamo un pensiero altamente connotato sul rapporto con la natura, e ho voluto che questa mostra fosse espressione di tale pensiero.
In American Power e Property Rights parla di interazioni e contraddizioni tra natura e società, mentre in Old Growth il suo approccio appare decisamente diverso: c'è una rappresentazione della purezza della natura, una contemplazione della sua estetica. Perché?
Mi ci sono voluti quasi sette anni per avere il coraggio di entrare nella natura e fotografarla in quel modo, perché mi chiedevo costantemente cosa avrei apportato di nuovo al genere della fotografia naturalistica. Ho cercato di entrarci con un approccio mentalmente aperto, senza per forza rimandare alle mie esperienze pregresse. Stando lì e pensando al mio lavoro passato e all’accelerazione della crisi climatica a livello globale, ho iniziato a capire che tutta la natura è adulterata dalle azioni degli esseri umani sulla Terra. Quello che mostro in Old Growth è ciò che rimane di puro, incolume dall’intervento umano.
Questo progetto celebra la sopravvivenza delle antiche foreste americane, ma chissà ancora per quanto. Negli Stati Uniti abbiamo sfruttato più del 95% delle nostre foreste e resta ben poco. Eppure, quel poco è lì, sottoforma di grandi alberi che restano ancora in piedi e svolgono tre funzioni fondamentali: trasformano l’anidride carbonica in ossigeno, racchiudono segreti e conoscenze potenzialmente utili al nostro adattamento a nuovi modi di vivere e insegnano a rispettare la storia e ciò che c’è sempre stato. In definitiva, Old Growth, per me, ha rappresentato una specie di chiamata a cui ho risposto lasciandomi trasportare.
E in American Power invece?
In American Power, invece, ho rappresentato l’inaridimento della natura causato dallo sfruttamento da parte dell’uomo. Le immagini di American Power sono un contrappunto all’industria, la rappresentazione di una dimensione che si inserisce in un contesto molto più esteso, rispetto a quello puramente industriale, in cui l’uomo sovrasta la natura.
La maggior parte dei miei progetti, e questi tre progetti in particolare, sono stati il risultato della mia attenzione per ciò che avevano da dire persone più competenti o informate di me. Riguardo American Power, ad esempio, stavo andando a Cheshire, in Ohio, per un commissionato del New York Times, e ho conosciuto una persona che si dissociava dall’American Electric Power per prendere le distanze da future cause legali per contaminazione ambientale. Questo mi ha spinto a fare domande e a guardare in modo più critico l’interconnessione tra i diversi aspetti della società, dell’industria, della comunità, del Governo.
E quanto il suo pensiero ideologico e politico ha influenzato la sua produzione di immagini?
Più conoscenze ho, più il mio lavoro ne trae beneficio. Più il mio bagaglio si riempie di sapere e di vissuto, in vari ambiti (storia, storia dell’arte, storia della fotografia, letteratura, storia culturale), più il mio concetto di fotografia si amplia. Tutti questi saperi sono essenziali per la produzione dell’opera che voglio realizzare. Ma, allo stesso tempo, l’abbondanza di conoscenza ed esperienza potrebbe ostacolare una visione chiara, fondamentale per la mia esigenza di vivere il presente, entrare nel mondo e rispondere in un modo che non sia preconcetto. Quindi, culturalmente e ideologicamente, il mio lavoro sta in equilibrio tra l’intenzionalità e l’apertura mentale e mi concedo sempre uno spazio per recepire ciò che è nuovo e diverso rispetto a quello che già so. Un pittore inizia da una tavolozza bianca e può andare in qualsiasi direzione, ma per il fotografo è diverso, perché deve fare i conti con il mondo reale.
Quando fotografo, seleziono in base alla mia esperienza, al mio pensiero non preconcetto, alla mia intuizione, alla mia comprensione di dove sono e di cosa voglio cogliere. Per me un’immagine avvincente deve mostrare qualcosa in un modo mai visto prima. La fotografia, così, risulta uno strumento per farsi ancora sorprendere dalla realtà.
Anche se il suo pensiero non vuole essere precostituito, la struttura estetica e compositiva dei suoi lavori è concentrata su delle caratteristiche, come il colore e il grande formato, che ritornano costantemente in tutta la sua produzione…
Ho iniziato a fare foto nel 1972-1973. Nei primi venti anni circa di carriera, mi sono spostato dalla produzione di un’immagine all’altra, fotografando in luoghi diversi e confrontandomi con diversi tipi di temi. Ma a partire da Vietnam: A Book of Changes, prodotto tra il 1992 e il 1995, sono passato a uno specifico formato per i miei progetti, il grande formato. Da quel momento il mio lavoro ha preso una direzione molto diversa e mi ha permesso, prima di tutto, di creare dei confini narrativi e temporali, lavorare su un particolare argomento o tema o su un insieme di temi, per un periodo di tempo. Negli ultimi trent’anni ho sempre lavorato così. I miei progetti, in questo modo, hanno un inizio, una parte centrale e una fine.
Qual è il rapporto, invece, tra le sue prime immagini in India (1978-1989) e American Power?
Penso che le immagini prodotte in India, come anche quelle prodotte in Vietnam, mi abbiano dato l’opportunità di distaccarmi dalla mia identità e visione americana.
In India tutto mi risultava sconosciuto, fotograficamente e visivamente, ma anche culturalmente e linguisticamente. Dovevo prima capire dove mi trovavo e da quali riferimenti potessi attingere per le mie immagini. In Vietnam, poi, avvertivo forte la pressione della storia americana su quelle terre, abbiamo commesso così tanti crimini durante la guerra in Vietnam… Ma stare lì mi ha permesso di pensare a quella parte di storia in un modo diverso e credo di essere riuscito a farlo grazie alla distanza fisica da casa.
Questo approccio l’ho adottato anche con le fotografie e ora riesco a entrare con consapevolezza in tematiche e in prospettive che non mi sono familiari, facendo un passo indietro rispetto alle mie sicurezze, con attitudine critica. È così che sono entrato nelle foreste vetuste americane di Old Growth. Non sapevo cosa sarebbe successo e quali direzioni avrebbe preso il mio lavoro, ma sentivo qualcosa di travolgente complesso e stratificato.
Apparentemente Old Growth, le immagini in India, America Power e Property Rights potrebbero apparire come lavori scollegati, ma hanno tutti a che fare con il ‘potere americano’, che non credo di aver compreso appieno – con le sue criticità e contraddizioni – fino a quando non sono stato in India.
Oltre alle sue immagini fotografiche, la mostra include due video installazioni: Darius Kinsey. Clear Cut, con le immagini di inizi Novecento di Darius Kinsey, e Forest Waves, un’installazione video e sonora delle quattro stagioni nelle foreste del Berkshire. Che apporto danno all’esposizione?
Ho voluto esporre Darius Kinsey. Clear Cut e Forest Waves per ampliare il raggio d’azione della mostra, ma anche per estendere la mia pratica fotografica e la mia visione. Guardandoli insieme alle immagini di Old Growth ci si accorge di essere davanti a una trilogia che offre una visione di insieme sulla natura e sul suo potere.
Guardando singolarmente alla produzione e alla figura di Darius Kinsey, invece, va detto che essendo io interessato alla storia della fotografia e in particolar modo alla storia della fotografia del west americano, ne sono rimasto subito affascinato e ho pensato che fosse l’occasione per farlo conoscere anche al pubblico della mia mostra.
Chi era, quindi, Darius Kinsey e come è venuto a conoscenza del suo lavoro?
Darius Kinsey era un fotografo americano di fine Ottocento, che concentrò la sua produzione fotografica nel racconto, con immagini di grande formato, dei taglialegna e delle fasi dell’industria del legname nel nord-ovest americano. Quando stavo lavorando a Old Growth, ho fatto ricerca sui fotografi come Carleton Watkins o Timothy O’Sullivan, che avevano immortalato, tra fine Ottocento e inizi Novecento, le stesse foreste che volevo immortalare anch’io.
Così mi sono imbattuto nell’opera di Kinsey. Lui, in maniera toccante e sublime, è riuscito, con le sue immagini, a raccontare di quel momento storico in cui la stragrande maggioranza delle persone credeva che le nostre risorse sarebbero state infinite. Il suo lavoro serve a contestualizzare il mio in una prospettiva e in un arco temporale più ampio. Anche in base alle sue fotografie di allora era importante realizzare le mie ora.
Mitch Epstein. American Nature
- A cura di Brian Wallis
- Gallerie d’Italia, piazza San Carlo, 156 – Torino
- dal 17 ottobre 2024 al 2 marzo 2025
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- gallerieditalia.com
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