Italiana d’origine, ma americana d’adozione, Martina Albertazzi ci introduce visivamente nelle storie di chi sceglie la vita nomade in giro per l’America, con il progetto intitolato A Warm Winter. Nello specifico la fotografa si sofferma sull’inverno passato nei deserti del West americano, quei luoghi immaginifici in cui la cultura americana ha ambientato la sua anima visiva. La stessa Albertazzi abbraccia, insieme alla sua famiglia, la filosofia nomade, producendo così un lavoro intimo ed emozionante, su uno spaccato sociale e paesaggistico che è anche casa sua.
L’idea di A Warm Winter nasce da uno stile di vita che appartiene anche a te, quello della vita nomade on the road. Quanto influisce il tuo sguardo partecipe sulla resa del tuo progetto?
Il mio sguardo influisce moltissimo. Tutto il lavoro per me è un ritratto molto personale della vita nomade in questa parte di mondo. Prima di trasferirmi in un camper con la mia famiglia, a metà del 2023, stavo già lavorando a questo progetto, ma sentivo che il mio punto di vista era troppo limitato. Vivevamo in una piccola città nel deserto, a due ore da Los Angeles, una meta molto popolare tra i nomadi durante l’inverno.
Per me era già abbastanza facile incontrare persone da intervistare e fotografare, ma comunque sapevo bene che avrei potuto documentare alcuni aspetti della vita in viaggio solo se li avessi vissuti sulla mia pelle. Piccole sfumature forse, magari sarei riuscita a finire il progetto anche continuando a vivere tra quattro mura, ma alla fine ho voluto seguire il mio istinto e così abbiamo iniziato la nostra vita ‘on the road’.
Qual è la storia delle persone che hai ritratto: da dove vengono? Hanno abbracciato questo stile di vita per necessità o per scelta? Sono costantemente nomadi o si muovono stagionalmente?
I nomadi negli Stati Uniti rappresentano una sottocultura vastissima e molto stratificata. C’è chi vive in viaggio per passione e chi lo fa per necessità; chi si muove solo in alcuni periodi dell’anno e chi invece si sposta di continuo. In questo progetto ho scelto di non concentrarmi solo su una categoria di nomade in particolare. Ho parcheggiato il mio camper e vissuto vicino a persone con storie di vita davvero eccezionali e diverse. Fortunatamente molte di loro hanno voluto raccontarmele.
C’è la storia di qualcuno di loro che vorresti condividere con noi?
Le storie che ho raccolto meriterebbero ore di racconti che spero, prima o poi, di riuscire a mettere tutte in un libro. In poche parole, qui, posso condividere con voi l’emozione di rincontrare Carrie, dopo non averla vista per quasi tre anni. Lei è una nomade che avevo conosciuto nel 2021 in California, quando già viveva in viaggio da molti anni e io avevo appena iniziato il progetto. Siamo sempre rimaste in contatto anche se non sapevamo se e quando ci saremmo riviste.
In occasione di questo nostro secondo incontro le ho fatto conoscere mia figlia e ho riabbracciato il suo cane. Inizialmente eravamo due sconosciute, separate da una grande differenza d’età e da percorsi di vita molto diversi, ma siamo diventate amiche. La vita in viaggio ti permette di costruire legami profondi in fretta.
Condividendo questo stile di vita immagino non sia stato difficile socializzare con i tuoi vicini di camper. Entrare nella loro intimità con la macchina fotografica ha creato delle diffidenze?
Devo dire che da quando ho iniziato a lavorare a questo progetto sono sempre stata accolta in modo molto caloroso dalle persone che ho incontrato, anche da chi non ha voluto assolutamente farsi fotografare. Ovviamente, però, entrare in casa di qualcuno, ancora di più se si tratta di un veicolo in cui lo spazio è ristretto, tirare fuori la fotocamera e creare foto intime che trasmettano emozioni forti è un’impresa molto difficile. Certe volte ci sono riuscita, altre ho fallito e in molti altri casi ci sto ancora provando.
La scelta di raccontare le storie di queste persone, ambientate in scenari suggestivi come i deserti americani, è stata una scelta voluta, dal punto di vista scenografico, o hai scelto quel contesto per altri motivi?
Ho scelto di raccontare storie di nomadi che durante l’inverno viaggiano nel deserto Mojave e in quello di Sonora perché vivo in questa parte di mondo da quasi cinque anni ormai. Nel 2020 mi sono trasferita nel deserto e ho iniziato a esplorare questo paesaggio, così straniero per me, per provare a capirlo un po’ meglio. All’inizio partivamo in tenda, io, mio marito e i nostri cani. È così, infatti, che ho conosciuto i primi nomadi, guidando e fermandomi in posti remoti.
Le tue immagini sono ambientate in un contesto iconico, quello dei deserti dell’America sud-occidentale e del Messico. Nell’immaginario del West si trovano continue citazioni letterarie, cinematografiche, fotografiche, di matrice americana. Quali sono stati i tuoi riferimenti culturali per A Warm Winter?
La Beat Generation, le corse in macchina da Los Angeles al deserto di Maria Wyeth in Play It As It Lays di Joan Didion, i paesaggi di Ansel Adams, In the American West di Richard Avedon, e ancora i paesaggi di Raymond Depardon, favole e leggende di popoli indigeni sui coyote e altri animali che popolano queste terre, libri di storia naturale sul deserto Mojave e quello di Sonora, le foto sui set dei film in mezzo al deserto, ZZYZX di Gregory Halpern, Paris, Texas di Wim Wenders, Nomadland, il libro di Jessica Bruder e l’adattamento cinematografico di Chloé Zhao, Breaking Bad.
Ho passato metà della mia vita a costruire un archivio di riferimenti culturali per questo lavoro. Alcuni di questi non hanno nulla a che fare con i nomadi, ma i colori, i paesaggi, le atmosfere mi tornano in mente ogni volta che ho la fotocamera in mano. E sono sicura che sto dimenticando un altro milione di fonti che mi ispirano ogni giorno.
La luce naturale e calda abbraccia tutto il lavoro. C’è un pensiero dietro?
La luce calda del deserto, al crepuscolo specialmente, è sicuramente una presenza fondamentale in questo lavoro. È un soggetto delle mie foto tanto quanto lo sono le persone che ritraggo. Questa luce e il calore che emana spingono molti a guidare migliaia di chilometri per trascorrere l’inverno tra la polvere e i coyote. Ormai anche quando lascio il deserto continuo a cercare la stessa luce, perché mi è entrata dentro.
Alcune immagini sono controluce, e lasciano spazio alla presenza fisica del sole. Perché?
Perché il sole è una presenza importantissima in tutto il lavoro. Come ho già detto, il sole, la sua luce e il suo calore, sono i motivi per cui migliaia di nomadi arrivano fino a qui, in questa terra all’estremo ovest degli Stati Uniti, e ci passano l’inverno. Alcuni lo fanno da decenni ormai. Il sole permette a chi vive in uno spazio limitato come una macchina di avere uno spazio illimitato fuori.
La dolcezza con cui sorge ed entra nel nostro camper la mattina e la forza totale con cui svetta al centro del cielo e non lascia scampo né riparo fino al tramonto. Ogni giorno, perché le nuvole e la pioggia qui sono una rarità. Documentarne la presenza fisica nelle mie foto è quasi una dichiarazione d’amore.
Sei italiana, ma l’America è spesso al centro dei tuoi lavori. Perché? E soprattutto pensi che il tuo sguardo “esterno” possa leggerla diversamente?
Mi piace fotografare i luoghi in cui vivo. Diciamo pure che non sono brava a fotografare posti lontani in cui posso trascorrere poco tempo, perché ho bisogno di immergermi e abitare completamente l’ambiente in cui lavoro. L’America è la mia seconda casa, da molti anni ormai. Sono sicura che il mio sguardo sia diverso da quello di una persona nata e cresciuta negli Stati Uniti, però credo anche che uno sguardo ‘esterno’ non legga necessariamente le cose in maniera diversa, può darne solo un’interpretazione personale. Ma la fotografia secondo me è sempre una questione personale.
A Warm Winter sembrerebbe quasi un album di famiglia, è così?
È sicuramente un diario visivo di vita in viaggio, in cui ritraggo anche la mia famiglia. Accanto ai momenti più personali poi ci sono anche, anzi soprattutto, le giornate che passo in giro da sola, esplorando terre immense e incontrando persone che hanno voglia di condividere un pezzo di strada con me. Mi rende felice poter rappresentare questi due aspetti della mia vita, privata e professionale, ricongiunti nello stesso lavoro.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Martina Albertazzi sono disponibili sul sito martinaalbertazzi.com
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